Empori solidali, in Italia sono 178. Oltre metà aperti negli ultimi 2 anni

Mappati i market attivi sul territorio nazionale. I dati contenuti nel primo rapporto di Caritas italiana e Csvnet. La metà delle realtà è gestita da associazioni. «Accanto al sostegno materiale proposte inclusione e socializzazione»

Funzionano come piccoli market ma distribuiscono gratuitamente beni di prima necessità a famiglie in povertà, e negli ultimi anni sono cresciuti in maniera esponenziale. Sono gli Empori solidali attivi in Italia a cui Caritas italiana e Csvnet, l’associazione dei Centri di servizio per il volontariato, dedica un primo rapporto presentato oggi, 5 dicembre, a Roma in occasione della 33ª Giornata internazionale del volontariato celebrata con una manifestazione organizzata nell’aula magna della facoltà di Architettura dell’Università di Roma Tre.

Secondo il report, sono 178 gli empori solidali attivi in Italia, distribuiti in 19 regioni; e almeno altri 20 sono pronti ad aprire entro il 2019. Ad eccezione del Molise, gli empori risultano attivi in tutte le regioni italiane. In testa alla classifica per numero di empori attivi sul proprio territorio regionale ci sono Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto che insieme totalizzano 70 strutture, pari a quasi il 40 per cento del totale. Negli altri territori, invece, la presenza risulta uniforme, anche se l’intero Meridione e le isole superano di poco il 21 per cento (38 empori).  Oltre al dato complessivo, che per la prima volta fotografa queste realtà nel loro insieme, colpisce il trend di crescita nell’ultimo triennio: il 57 per cento degli empori (102) ha aperto tra il 2016 e il 2018, quota che sale al 72 per cento se si considera anche l’anno precedente. «Il primo è nato nel 1997 a Genova – spiega il rapporto -, mentre è dal 2008, con le aperture degli empori Caritas a Roma, Prato e Pescara, che il modello ha cominciato ad affermarsi».

Esperienze varie e non sempre collegate tra di loro ma che comunque hanno diverse cose in comune. Come l’aspetto e il funzionamento simile ad un esercizio commerciale, spiega il report. «Somigliano a negozi o piccoli market – si legge nel report -, distribuiscono gratuitamente beni di prima necessità, resi disponibili da donazioni o acquisti, tra i quali i beneficiari possono liberamente scegliere in base ai propri bisogni e ai propri gusti». Altra caratteristica che accomuna le diverse esperienze sparse per l’Italia è quella che li vede in rete con altre realtà del territorio sul piano dell’approvvigionamento o rispetto alla individuazione e all’accompagnamento dei beneficiari. Gli empori, inoltre, «accanto al sostegno materiale, propongono direttamente o indirettamente servizi e percorsi di orientamento, formazione, inclusione e socializzazione».

Le dimensioni e le caratteristiche degli empori, invece, sono piuttosto disomogenee. Il costo mensile per la gestione oscilla tra 0 e 28mila euro, tuttavia più del 70 per cento si attesta nella fascia tra 1.000 e 4.500 euro. A pesare maggiormente sono le voci di costo relative all’acquisto diretto dei beni (circa 40 per cento) e personale (per il 22 per cento). Gli empori sono aperti per 1.860 ore alla settimana per un totale di oltre 100mila ore all’anno – spiega la ricerca -. La maggioranza apre 2 o 3 giorni alla settimana (non consecutivi); privilegiati i giorni infrasettimanali, mentre 37 sono aperti anche il sabato”. Notevole la varietà dei beni in distribuzione. Accanto agli alimenti non deteriorabili, ci sono alimenti freschi e ortofrutta (in 124 servizi), alimenti cotti (in 30) e surgelati. Ma anche prodotti per l’igiene e la cura della persona e della casa (in 146 empori), indumenti (in 50), fino ai prodotti farmaceutici, ai piccoli arredi e agli alimenti per gli animali. Molto presenti, infine, prodotti per bambini e ragazzi: giocattoli (disponibili in 62 realtà), articoli per la scuola e prodotti di cancelleria (in 92) e soprattutto alimenti per neonati (in 150).

A gestire gli empori, nella quasi totalità dei casi, sono le organizzazioni non profit, spesso in rete fra loro: per il 52 per cento sono associazioni (in maggioranza di volontariato), per il 10 per cento cooperative sociali, per il 35 per cento enti ecclesiastici diocesani o parrocchie, per il 3 per cento enti pubblici. Il ruolo di questi ultimi, quasi sempre Comuni (300 quelli coinvolti), è riconosciuto da quasi tutti gli empori in ordine all’accesso e l’accompagnamento dei beneficiari. Le Caritas diocesane hanno un ruolo in 137 empori (in 65 casi come promotrici dirette); i Csv lo hanno in 79 empori, offrendo prevalentemente supporti al funzionamento. Sono più di 1.200 inoltre le imprese che collaborano direttamente con gli empori. «Da esse proviene il volume maggiore dei beni che verranno messi a disposizione sugli scaffali – spiega il rapporto -, anche se non tutti ne usufruiscono: il “fornitore” che accomuna la quasi totalità delle strutture è infatti il terzo settore, anche se questa voce è spesso correlata a raccolte di beni negli esercizi privati da parte di organizzazioni non profit del territorio, in particolare il Banco Alimentare. Da registrare che sono 134 gli empori che dichiarano una quota più o meno alta di acquisto diretto».

5 dicembre 2018