Emergenza sangue, il Lazio non è mai autonomo

Nel 2014 trentamila unitò utilizzate in più rispetto a quelle donate, e con l’estate la situazione si aggrava. L’esperta: «Manca consapevolezza»

Nel 2014 trentamila unitò utilizzate in più rispetto a quelle donate, e con l’estate la situazione si aggrava. L’esperta: «Manca consapevolezza»

Centottantaquattromila contro 213mila. Le prime sono le unità di sangue donate nel Lazio nel 2014, la seconda cifra si riferisce invece a quelle utilizzate nello stesso periodo. L’emergenza sangue non va in vacanza e, nel caso della nostra regione, c’è da sempre una carenza di donazioni che non le permette di essere autosufficiente. «Mancano 30mila unità – ammette la professoressa Gabriella Girelli, ordinario di immunoematologia alla Sapienza -; insieme alla Sardegna, il Lazio non ha mai raggiunto la totale autonomia». E con l’arrivo dell’estate la situazione si aggrava: «I donatori vanno in ferie, i malati no».

Le regioni del Nord sono le più virtuose. Da loro, infatti, arrivano le sacche mancanti: «Ovviamente questo ha alti costi di spedizione, perché c’è una normativa da rispettare quando si trasporta angue». Solitamente, le regioni più fornite sono il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto. Bisogna aggiungere però che Roma ha un flusso di pazienti notevole perché ne arrivano molti dal Sud, per operarsi nei grossi centri come il Gemelli o l’Umberto I. «Quello che manca, a mio avviso – continua Girelli – è la consapevolezza: in teoria, ogni paziente dovrebbe portarsi almeno due donatori, per essere certo che ci sia sangue a sufficienza. La verità è che s’ignora di quanto sangue ci sia bisogno per fare anche un normale trapianto».

In teoria, non si potrebbe neanche entrare in sala operatoria senza avere sufficienti sacche di plasma, senza considerare che le operazioni possono complicarsi o non andare bene. «Si possono utilizzare anche 100 sacche – dice la professoressa – e il mondo dei trapianti non è l’unico che necessita di sangue. Pensiamo all’anemia mediterranea: ci sono pazienti che vivono grazie alle trasfusioni fatte ogni 15 giorni. Poi ci sono le anemie congenite, che si acquisiscono spesso in età adulta. E poi tutte le terapie per le leucemie, i linfomi, i tumori solidi, perché la chemioterapia non fa distinzione tra cellule sane e malate, distrugge tutto. Quindi, per mantenere in vita il paziente, bisogna fare le trasfusioni».

Inoltre, piastrine, plasma e globuli rossi sono utili ai progressi della medicina che altrimenti non potrebbero essere messi in atto. Per rispettare i parametri dettati dall’Unione europea in materia, i centri trasfusionali e le unità di raccolta dovevano accreditarsi presso la Regione di appartenenza entro il 30 giugno scorso. «L’accreditamento è stato un ottimo strumento di crescita per l’intero sistema trasfusionale – dice Aldo Ozino Caligaris, presidente nazionale di Fidas, la Federazione italiana delle associazioni dei donatori di sangue – per cercare di garantire in qualità e sicurezza la disponibilità di terapia trasfusionale.

Nel Lazio, la maggior parte delle strutture è accreditata. Solo per poche si sta completando il percorso di valutazione. In ogni caso, tutte continuano la loro attività di raccolta». Donare sangue è un atto d’amore verso gli altri ma anche verso se stessi: «Quando si dona, si entra in un programma di medicina preventiva – ammette la Girelli – ossia, una volta l’anno, al donatore sono fatti esami che riguardano, ad esempio, la glicemia. Si controllano le funzioni renali, il colesterolo e i trigliceridi. Ricordo la storia di un donatore con il ferro basso. Era agosto, lo abbiamo sottoposto ad altri esami: è uscito fuori un cancro al colon e nel giro di 15 giorni si è operato. Ora sta benissimo, per legge non può più donare sangue, ma fa il volontario nel nostro centro trasfusionale. Il donatore non è mai lasciato solo, così come lui non abbandona chi ha bisogno di sangue per vivere e sopravvivere».

 

13 luglio 2015