Elena Anticoli de Curtis racconta suo nonno, Totò
Un ritratto con tanti aneddoti. Come quella volta che, ormai famoso, comprò un negozio a una caldarrostaia per ricambiare un gesto di generosità di tanti anni prima, quando era giovane e povero. «In tutto questo stava la sua nobiltà»
Nel cuore del rione Sanità, a Napoli, il 15 febbraio 1898 nasce Antonio de Curtis, frutto della relazione clandestina tra la giovanissima Anna Clemente e il marchese Giuseppe de Curtis, che lo riconoscerà come figlio solo negli anni Venti. Totò, il principe della risata che a 52 anni dalla sua morte continua a essere una presenza costante delle programmazioni televisive, ha così sempre vissuto con la malinconia nel cuore ma con il sorriso sul volto e la risata elargita in modo generoso. La nipote Elena Anticoli de Curtis – che da poco ha pubblicato insieme a Virginia Falconetti il volume “Il principe poeta” (Colonnese ed.), una raccolta completa di poesie e canzoni di Antonio de Curtis – in questa intervista racconta la «persona perbene» che fu suo nonno.
Chi era il principe De Curtis?
Era un uomo pensante che si nascondeva dietro Totò ma grazie al quale è riuscito ad esprimere, con la recitazione, ciò che realmente era. Uomo notturno, si ricavava il tempo per pensare quando i rumori del giorno erano scomparsi oppure raggiungeva i luoghi a lui cari, come ad esempio Rapallo o
Ravello, dove meditare e ritrovare un rapporto con l’infinito. Soprattutto, Antonio de Curtis godeva delle piccole cose perché la felicità, come disse in un’intervista, è fatta di momenti di dimenticanza.
Irriverente sulla scena, introverso e pensoso nel privato, Antonio de Curtis non rinunciò mai a esprimere il proprio punto di vista
La libertà di pensiero fu uno dei suoi tratti: non si sarebbe mai piegato all’autorità. Non accettava di essere un fantoccio. Mai borioso, sempre umile pur avendo avuto un successo enorme, rimase fedele a se stesso e alle sue origini. Si servì anzi dell’ironia – che il potere odia – per deridere il fascismo. E per questo fu costretto anche a scappare e a nascondersi.
La fissazione dei titoli nobiliari, le battaglie legali per il cognome pur riconoscendo che chiamarsi semplicemente “Totò” aveva molto più valore visto che gli dava di che vivere
Non era una fissazione per il titolo in sé. Suo padre non lo aveva riconosciuto. Era figlio di NN e per la società questa era una vergogna. Dunque è di questo che ha sofferto: non avere un riconoscimento. Oggi la famiglia si è forse disgregata ma nel passato era vissuta in maniera forte e prima di sfasciarne una si cercava di tenerla in piedi a tutti i costi. Quella di nonno è stata una battaglia per scagionarsi, per avere una famiglia, per riscattare quel bimbo che non era stato accettato. Per il resto i nobili, quelli, mio nonno li ha derisi, specie i “nouveaux riches”, gli arricchiti. La vera nobiltà è altra cosa: come sottolinea nella poesia ‘E pezziente, ha a che fare con la dignità, che in parte è accettare quello che la vita ti dà e in parte è comunque combattere le ingiustizie e gli accadimenti negativi, senza per questo fare torto agli altri.
Spesso stroncato dai critici, che definirono la sua filmografia «cibo buono per i poveracci», Totò fu rivalutato dopo la morte.
Lui sapeva che una parte dei film erano da botteghino, tant’è che delle circa cento pellicole girate ne ha salvate solo cinque, tra le quali “La mandragola” e “Guardia e ladri”, che guadagnò anche il Nastro d’argento. Sebbene siano stati film poco strutturati, nonno ha tuttavia accettato di farne parte nel ricordo della fame che si è portato dentro per sempre. Come a dire “prendo oggi e poi domani si vedrà”.
Suo nonno ha amato profondamente gli animali.
Si, riconosceva agli animali una fedeltà sincera. Le racconto due aneddoti. Di solito la famiglia de Curtis andava in vacanza a Viareggio. Un anno si decise di cambiare. Nonno mise, all’interno della sua bombetta, tre fogliettini sui quali aveva annotato tre diverse località. Toccò a mia madre pescare il fogliettino con la nuova meta: Capri. Presero così in affitto una villa sull’isola ma all’arrivo vi trovarono un cucciolo di cane che si affezionò tanto a nonno, il quale decise allora di chiedere al
proprietario se poteva tenerlo. Lo chiamò Dick, era un cane lupo, l’amico fidato al quale dedicò anche una poesia. Ebbe poi un pappagallo, Gennarino, e, alla morte di Dick, prese un barboncino. La seconda storia è legata invece a un fatto di cronaca. Un giorno nonno lesse sul giornale di una donna che badava ai cani alla periferia di Roma. Morta in un incendio, un’amica le subentrò nella cura di quei randagi. Totò volle incontrarla e le finanziò un nuovo canile, sostenendo anche tutte le spese veterinarie per circa 250 cani.
Un gesto davvero generoso.
Pensi che a un cane pastore, che aveva perso le zampe posteriori, fece costruire una carrozzella, una sorta di deambulatore per permettergli di continuare a muoversi e correre. Era il periodo della sua cecità e per questo capiva il peso di una menomazione. Ma più in generale, ebbe sempre grande attenzione per i più indifesi, i bambini, gli anziani e i poveri. Ricordo che quando era a Roma, all’inizio recitava con l’accordo di non chiedere mai un compenso. E senza un soldo in tasca, attraversava a piedi la città due volte al giorno. In una sera di pioggia battente si fece coraggio e chiese una lira all’impresario per poter comprare il biglietto del tram. Per tutta risposta venne licenziato. Lungo la strada, camminando sotto l’acqua, nonno si fermò al banchetto di una caldarrostaia che intuendo la sua povertà gli regalò un sacchetto di castagne. Diventato famoso, Totò si è ricordato di quella donna. L’ha cercata e come atto di riconoscenza le ha messo su un negozio. In tutto questo era la nobiltà di Antonio de Curtis.
23 gennaio 2019