È morto “Mario”, il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto il suicidio assistito

Federico Carboni, questo il suo vero nome, 44 anni, si è autosomministrato un farmaco letale, attraverso un macchinario apposito. Gambino (Scienza & Vita): «Non è alternativa a cure palliative». Natili Micheli (Cif): «Prossimi a chi soffre per lottare contro il dolore»

«Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita, sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile e cercare di recuperare il massimo dalla mia disabilità, ma ormai sono allo stremo sia mentale sia fisico». Sono le ultime parole di Federico Carboni, 44 anni, di Senigallia: è lui “Mario”, il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito – reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sul caso Cappato-Antoniani -, morto ieri, 16 giugno, alle 11.05. Come da lui disposto, la sua vera identità è stata rivelata solo dopo la sua morte, avvenuta nella sua abitazione dopo essersi auto somministrato un farmaco letale attraverso un macchinario apposito, costato circa 5mila euro, interamente a suo carico, per il quale l’Associazione Luca Coscioni aveva lanciato una raccolta fondi.

Il via libera definitivo era arrivato il 9 febbraio scorso, a quasi 2 anni dalla prima richiesta e dopo una lunga battaglia legale, nella quale Federico è stato assistito dall’Associazione Coscioni. E una parte del collegio legale – insieme a Marco Cappato e Filomena Gallo – era presente anche ieri, quando la procedura è stata eseguita, sotto il controllo medico del dottor Mario Riccio, anestesista di Piergiorgio Welby e consulente di Federico Carboni durante il procedimento giudiziario. Accanto a Federico, la famiglia e gli amici.

«Non ho un minimo di autonomia della vita quotidiana, sono in balìa degli eventi, dipendo dagli altri su tutto, sono come una barca alla deriva nell’oceano – ancora le parole di Federico -. Sono consapevole delle mie condizioni fisiche e delle prospettive future quindi sono totalmente sereno e tranquillo di quanto farò. Con l’Associazione Luca Coscioni ci siamo difesi attaccando e abbiamo attaccato difendendoci, abbiamo fatto giurisprudenza e un pezzetto di storia nel nostro Paese e sono orgoglioso e onorato di essere stato al vostro fianco. Ora finalmente sono libero di volare dove voglio».

Per Alberto Gambino, presidente di Scienza & Vita oltre che pro-rettore dell’Università Europea di Roma, «l’esito di questa vicenda, cioè l’auto somministrazione di un veleno da parte del paziente finalizzato alla morte con l’assistenza di personale sanitario, non è inaspettato, perché la nostra Corte costituzionale aveva già tracciato questo orizzonte, ovvero che un paziente di fronte ad alcuni requisiti stringenti definiti dalla stessa potesse autonomamente porre fine alla propria vita – dichiara all’Agenzia Sir -. In questo caso, i requisiti sono stati acclarati da un comitato del Servizio sanitario, ma quello che in Italia ancora oggi non è stato definito è un protocollo operativo e quindi in questi casi si va avanti da soli e le associazioni hanno proceduto a spese loro e con i loro mezzi». Quanto accaduto, secondo il giurista, mostra anzitutto che «la legge in discussione in Parlamento deve tenere conto della sentenza della Corte costituzionale che non obbliga il Sistema sanitario a essere coinvolto. Quindi – prosegue – occorre scongiurare che il Sistema sanitario venga coinvolto, ma al contempo si devono evitare speculazioni economiche nell’esercizio di queste pratiche».

Il secondo tema che, per Gambino, risulta «un po’ opaco» nella vicenda è che «questa sentenza richiede che prima di tutto si faccia un serio percorso di cure palliative, applicando una legge del 2010 sulla terapia del dolore, e che solo nel caso che queste terapie si rivelassero insufficienti si potrebbe arrivare alla richiesta di assunzione del farmaco letale. Questo è un punto altrettanto importante – evidenzia -, perché non si può stare davanti a un’alternativa: cura palliativa o assunzione di un farmaco letale. Ci deve essere prima di tutto il percorso palliativo. In questo l’attuale disegno di legge fa una scelta sbagliata perché mette come alternative le due soluzioni». Eppure si tratta di uno snodo fondamentale, perché «per gran parte dei pazienti in uno stato di sofferenza, anche straziante, l’attuazione della legge sulle cure palliative rappresenterebbe una buona soluzione, perché nell’esistenza delle persone non avere il dolore e continuare a coltivare un rapporto e una relazione con gli altri, seppur in condizioni difficili, spesso è più armonico con il momento dell’abbandono definitivo – ancora le parole dell’esperto al Sir -. È una situazione più lineare nelle relazioni umani. Troncare con un veleno l’esistenza umana rompe questo elemento relazionale». In questo senso, «vanno potenziate le terapie del dolore», per «evitare che il suicidio assistito diventi una prassi o un orizzonte culturale».

Anche Renata Natili Micheli, presidente nazionale del Centro italiano femminile (Cif) commenta la vicenda dal suicidio medicalmente assistito di Federico Carboni, evidenziando che, dal punto di vista della fede, «la vita e la morte sono due realtà immanenti l’una all’altra sulle quali l’ultima parola spetta a Dio. Anche se sappiamo bene che il giudizio è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso e le nostre azioni trovino la loro oggettiva verità che serve anche a ristabilire la giustizia, da credenti – aggiunge – riconsegniamo nelle mani di Dio il giudizio finale sulla storia individuale e più in generale ci facciamo prossimi a chi soffre per lottare contro il dolore che lo angustia con sentimenti di fraterna vicinanza».

17 giugno 2022