Don Roberto Sardelli, dalla parte degli ultimi

La storia del sacerdote morto nel 2019 che visse alcuni anni tra i baraccati dell’Acquedotto Felice. La “Lettera al Sindaco” e la “Scuola 725”

«Noi mandiamo questa lettera al Sindaco perché è il capo della città. Egli ha il diritto e il dovere di sapere che migliaia dei suoi cittadini vivono nei ghetti»: cominciava con queste parole la “Lettera al Sindaco” della Scuola 725, scritta assieme a don Roberto Sardelli da un gruppo di ragazzini che vivevano nelle baracche dell’Acquedotto Felice. La lettera (stampata al ciclostile, lo strumento che dava voce anche alla contestazione giovanile di quel periodo) fu presentata ad un gruppo di giornalisti il 15 settembre 1969, all’interno della baracca 725 dove il giovane sacerdote faceva scuola e viveva dal 1968. Il giorno dopo gran parte dei giornali e delle agenzie di stampa pubblicarono la lettera.

 Attraverso quel documento e il successivo libro “Non tacere”, don Roberto diede voce a un gruppo di ragazzini baraccati ed insegnò loro – sull’esempio di don Milani – che solo con lo studio avrebbero potuto trasformare la propria vita. Lo faceva con una certa severità, e senza sconti: «Si studia tutti i giorni, dalla mattina alla sera, e tutto l’anno – si legge nella “Lettera al Sindaco” – e la parola “vacanze” è da confessare come una parolaccia».

Roberto Sardelli era nato in Ciociaria, a Pontecorvo, il 5 aprile 1935. Proveniva da una famiglia della media borghesia e si diplomò in ragioneria. Si dedicò alla politica come giovane militante della Democrazia Cristiana prendendo a cuore la situazione dei lavoratori dell’argilla di Pontecorvo e guardò con interesse alla figura di Giorgio La Pira, il sindaco “santo” che a Firenze rappresentava l’anima di un’esperienza amministrativa fortemente caratterizzata dall’attenzione ai più bisognosi.

Entrò in Seminario nel 1960 a Roma, nell’Almo Collegio Capranica, e da seminarista visse tutta la stagione della celebrazione del Concilio Vaticano II. Venne ordinato nel 1965, e il suo primo incarico fu a Vitinia, nell’area sud-ovest della capitale, fuori dal Grande Raccordo Anulare, nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante, eretta nel 1955 e costruita in cemento armato da Ildo Avetta, un architetto famoso e legato all’Azione Cattolica.

Nel 1968 don Roberto venne inviato alla parrocchia di San Policarpo, nel quartiere Appio Claudio, tra la via Tuscolana e la via Appia Nuova. Proprio alle spalle della parrocchia, in quello che oggi è il Parco degli Acquedotti, esisteva una baraccopoli che si appoggiava alle mura dell’Acquedotto Felice. Don Roberto era chiamato a coadiuvare il parroco, don Sisto Gualtieri. Il giovane sacerdote cominciò a frequentare gli abitanti della baraccopoli, scoprendo che erano prevalentemente migranti dall’Abruzzo e dal resto del Meridione, venuti in gran parte a costruire la Roma che si rinnovava negli anni Sessanta; ma scoprì anche come quei muratori (gli uomini) e quelle donne di servizio che abitavano le baracche venivano sfruttati dalla città, ma anche tenuti ai margini, senza alcuna possibilità di abitare una casa vera. Questa popolazione dolente in quelle baracche aveva ricostruito il clima e l’umanità dei paesi di provenienza rimanendo estranea alle dinamiche della città che cresceva.

Don Roberto decise di andare a vivere in mezzo a quell’umanità oppressa. Nella “Lettera al Sindaco” si descrive così la situazione: «Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie». Vi si racconta che nel corso dell’anno due bambini erano morti per broncopolmonite, data la situazione insalubre delle baracche.

La battaglia di don Sardelli, caratterizzata dalla scelta di passare dal piano dell’assistenza a quello della emancipazione, avrebbe contribuito a rafforzare i legami di affetto e la rete sociale nella baraccopoli. E quando le baracche vennero abbattute perché agli abitanti nel 1973 vennero assegnati degli alloggi nel quartiere di Nuova Ostia, quel tessuto umano, ancora forte della coesione tramandata dal mondo rurale di provenienza, si lacerò in fretta. Don Sardelli parlò di una «deportazione dolorosa» perché comunque all’Acquedotto Felice «si era costruita una comunità che dopo si è disgregata almeno in parte…» nel trasferimento in un quartiere lontano dal centro, senza servizi e senza strade.

Dalle baracche alla periferia estrema della città: un viaggio non privo di amarezze. Le vicende di quella esperienza di rilievo per la Roma civile ed ecclesiale degli anni del post-Concilio è possibile rileggerle attraverso le interviste a don Sardelli presenti nel volume dello stesso sacerdote e di Massimiliano Fiorucci dal titolo “Dalla parte degli ultimi” (2020). Vi si respira il clima che introdusse alla grande riflessione della Chiesa locale che nel febbraio 1974, su iniziativa del cardinale Poletti, si realizzò con il convegno poi definito “sui mali di Roma”.

Dopo quella esperienza don Roberto avrebbe continuato la sua opera a favore dei più deboli e di critica alle conseguenze devastanti del consumismo anche attraverso l’attività di collaborazione con varie testate giornalistiche, non solo di carattere religioso. Agli inizi degli anni Ottanta fondò con don Bruno Nicolini e Mirella Karpati l’associazione culturale Studio Flamenco che, partendo dal patrimonio della danza, muoveva all’interesse per una maggiore comprensione della realtà gitana; e alla fine degli anni Ottanta si sarebbe schierato a fianco della nuova debolezza che emergeva nelle pieghe di una società ricca ed indifferente, quella dei malati di Aids. Accompagnò molti malati nelle corsie degli ospedali, riconoscendo in quella porzione di umanità sofferente una nuova frontiera degli ultimi, bisognosi di compagnia e riscatto.

Quasi al termine dei suoi giorni, nel novembre 2018, l’Università Roma Tre gli conferì una laurea magistrale honoris causa in Scienze pedagogiche, e in quell’occasione tenne una prolusione dal titolo “Dal seminario alla scelta passando per don Milani”. Don Roberto Sardelli si è spento nella sua Pontecorvo il 18 febbraio 2019.

17 maggio 2021