Don Oscar, dalla Clericus Cup un impegno per il Venezuela

La testimonianza di un sacerdote in campo con la squadra Altomonte, originario del Paese sudamericano. «I giovani saranno in grado di cambiare» 

Don Oscar Mogollón è venezuelano, ha 31 anni, è sacerdote da sette. In Italia da sei anni, sta partecipando alla Clericus Cup, il torneo per sacerdoti e seminaristi organizzato dal Centro sportivo italiano (ora fermo per le festività pasquali, riprenderà il 4 maggio alle 10.30 al Centro Sportivo Pio XI), come centrocampista della squadra Altomonte, un centro ecclesiastico internazionale promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce. È originario di Acorigua, a circa 300 chilometri dalla capitale Caracas. Gli chiediamo come ha scoperto la sua vocazione. «A 12 anni entrai nel Seminario minore di Acorigua. Mia madre, scomparsa a 55 anni, era una donna di preghiera, insegnante di scuola elementare. Mi ha lasciato libero di scegliere dicendomi: “Qui c’è la tua stanza”. Mio padre, dipendente pubblico, e mia sorella sono in Venezuela».

Perché è in Italia?
Per approfondire gli studi: filosofia etica. Qui c’è il cuore della fede. Il cambiamento ti sconvolge e arricchisce, è lasciarsi impregnare dalla realtà. Per certi versi s’incontra una fede un po’ stanca che ha bisogno di rinnovamento. Nel fine settimana, e durante le vacanze, collaboro nella parrocchia di San Nunzio Sulprizio, a Pescara.

Come è arrivato alla Clericus cup?
Vi partecipo da sei anni. In Venezuela si giocava tutti i giorni. «Il calcio è come la Messa», diceva il nostro formatore. Nel senso che ha il suo spazio nella formazione del sacerdote.

Cosa sta succedendo nel suo Paese?
Era un Paese come tanti, si viveva bene. Cominciava a esserci malessere, scarsi servizi pubblici, ma niente di paragonabile all’attuale situazione. Il problema più grande ora è la mancanza di energia elettrica e acqua: tutto è ingestibile. La scuola è un dramma, per settimane resta chiusa, lo stipendio dei docenti è basso, il livello educativo è mediocre. Nei seminari manca la formazione base. Prima c’è stata la fuga dei cervelli, poi di tutti gli altri.

Come è potuto succedere?
L’uomo si chiude al bene, alla luce di Dio. È la storia di Lazzaro e del ricco Epulone che non vede i bisogni e il futuro ma solo il benessere e la propria ricchezza. C’è una struttura da smontare e ci vorrà tempo. Le nuove generazioni saranno in grado di cambiare il panorama.

Lei l’anno scorso si è fatto autografare la maglia della squadra da Papa Francesco quando, per la prima volta, una rappresentanza della Clericus è stata ricevuta e lui ha benedetto il trofeo.
È stata un’idea del mio rettore Pau Agulles. Mi disse: «Se hai l’occasione fatti firmare la maglia». Ora è al Museo diocesano di Albano nella mostra “Nati per correre”, esposta fino al 10 maggio, che presenta anche altri oggetti nell’ambito dei festeggiamenti per i 75 anni del Csi, che promuove la Clericus cup. Poi tornerà all’Altomonte. Non è mia ma del Collegio.

Cosa rappresenta per lei il calcio?
Prima era un divertimento, ora un combattimento, come nella fede. All’inizio non si vedono i risultati ma emergono con la perseveranza. Userò questa metafora con i ragazzi in Venezuela dove tornerò l’anno prossimo. C’è bisogno di combattere e le giovani generazioni vedranno il risultato della lotta. Dovrà essere sacrificata una generazione, come in altre tappe della storia. Giocherò a calcio per mostrare la dimensione ludica della fede.

15 aprile 2019