Don Morlacchi da Gerusalemme: «Spunti di riflessione e orizzonti di speranza»

A più di un mese dall’inizio della guerra con Hamas, il sacerdote fidei donum della diocesi di Roma fa il punto della situazione. A cominciare dal «rigurgito di antisemitismo che sta dilagando in Italia e in tutto il mondo». In questo «tempo tremendo», chiamati a «restare umani»

Nel giorno della festa della dedicazione della basilica lateranense, ieri, 9 novembre, da Gerusalemme arriva una nuova «lettera in tempo di guerra» di don Filippo Morlacchi, sacerdote fidei donum della diocesi di Roma, dal 2018 in Terra Santa, dove gestisce la casa di accoglienza della diocesi di Roma, gestisce la Casa Filia Sion, a Gerusalemme, una struttura nata in un appartamento delle suore Francescane Missionarie di Maria nella quale trovano accoglienza sacerdoti, seminaristi e laici romani pellegrini nei luoghi santi, vicino alla Porta di Damasco, una delle principali porte della città vecchia di Gerusalemme. Di seguito il suo testo:

Gerusalemme, 9 novembre 2023

Quarta lettera in tempo di guerra

È passato più di un mese dal 7 ottobre, il sabato che ormai molti chiamano black shabbat (“sabato nero”). L’occasione per fare brevemente il punto della situazione e informare gli amici. Scrivere questa lettera mi sta costando più fatica delle precedenti. Tante sarebbero le cose da dire, forse troppe, e temo di soffermarmi su dettagli inutili e di trascurare elementi importarti. Perciò ho meno voglia di esprimermi, e preferirei tacere. Cerco comunque di condividere fraternamente con gli amici alcuni spunti di riflessione e di suggerire orizzonti di speranza. Mi scuso in anticipo per la prolissità.

In Italia arrivano abbondanti notizie da Israele e da Gaza. Ciò che mi colpisce di più, nella maggioranza dei reportage sui giornali, e nella quasi totalità dei post diffusi sui media, è la tendenza a schierarsi acriticamente da una parte o dall’altra del conflitto. Il fenomeno sarebbe comprensibile, da parte di chi è più coinvolto dagli eventi; ma questi estremismi mi sembrano generalizzati. Sui social media tutto viene esasperato e banalizzato, e diventa occasione per un grossolano tifo da stadio. Il tono categorico con cui tante persone esprimono la propria interpretazione dei fatti mi lascia interdetto. E questo fenomeno lo registro purtroppo sia in chi ha una certa cognizione di causa, sia in chi mi sembra piuttosto manipolato dalle informazioni superficiali che riceve.
Prima di raccontare dunque come vanno le cose qui a Gerusalemme, mi permetto di condividere qualche riflessione “di metodo”, sperando che possa aiutare ad orientarsi nel “conflitto mediatico” che si sovrappone al conflitto reale.

Il primo fenomeno di questi ultimi giorni che mi pare doveroso registrare e interpretare è il rigurgito di antisemitismo che sta dilagando in Italia e tutto il mondo. A Roma la commemorazione del 16 ottobre 1943 – data del tragico rastrellamento del ghetto, e della conseguente deportazione di più di mille ebrei romani nei campi di sterminio – sta diventando un appuntamento tradizionale che favorisce la costruzione di una memoria condivisa. È triste apprendere che, solo pochi giorni dopo la commemorazione, a Trastevere alcune targhe commemorative di ebrei vittime della Shoah – le cosiddette “pietre d’inciampo” – sono state vandalizzate. Simultaneamente sono ricomparse stelle di Davide e svastiche sui muri e nei cimiteri di numerose città europee. Alcune manifestazioni di solidarietà verso i palestinesi si sono trasformate in palcoscenico per l’esibizione di gesti antisemiti. Si tratta di comportamenti ingiustificabili, oltre che stupidi: da condannare senza appello. Comprensibilmente molti ebrei sono indignati e preoccupati, perché temono il riaffiorare dell’atavico pregiudizio antisemita. È sicuramente una preoccupazione legittima. Il pregiudizio antiebraico è profondamente radicato, e riemerge anche dopo periodi di latenza. Osservando le imponenti manifestazioni filo-palestinesi che hanno affollato le piazze di mezzo mondo in queste settimane, alcuni commentatori hanno scritto che l’antico antisemitismo sta assumendo il volto ipocrita della difesa dei diritti dei più deboli. È un’opinione sulla quale riflettere: è possibile, infatti, che le prese di posizione “pro-Palestina” siano generate da un antisionismo fazioso, e non da sincero amore per la giustizia. Ho letto appelli al cessate il fuoco e inviti alla pace che mi suonavano ideologici e fasulli, redatti da persone schierate acriticamente, senza adeguata conoscenza della situazione. Ed è anche possibile che in qualcuno, o forse in molti, la critica alle politiche di Israele – di per sé legittima – degeneri in odio cieco verso tutti gli ebrei indistintamente, cioè in antisemitismo.

D’altro canto, i bombardamenti su Gaza, oltre a colpire gli obiettivi strategici di Hamas, mietono migliaia di vittime civili e producono lutto e sofferenza nella popolazione. È irragionevole pensare che questa immane distruzione susciti nell’opinione pubblica anche reazioni sincere a difesa di vittime innocenti? Perché l’ipotesi che qualcuno voglia con purezza d’intenzione solamente impedire una strage di altri innocenti dovrebbe essere respinta come oltraggiosa? Perché solidarizzare con il dolore delle mamme e dei papà di Gaza dovrebbe implicare una connivenza con Hamas, o un latente pregiudizio antiebraico? Certo, è doveroso e urgente, oggi, condannare senza mezze misure l’antisemitismo, in tutte le sue forme; tutti siamo chiamati a farlo, noi cristiani per primi. Ma vorrei poter conservare la libertà di poter anche implorare pietà per la gente di Gaza, come ha fatto il Papa, senza per questo esser accusato di odiare il popolo ebraico. Vorrei sentirmi libero di abbracciare i figli di Israele senza esser costretto ad odiare il popolo palestinese perché mi sia consentito farlo.

Nondimeno, per chiedere con onestà intellettuale questa libertà di espressione bisogna ricordare che l’invocato “cessate il fuoco” deve essere bilaterale: ancora vengono lanciati razzi nel territorio israeliano, e anche questo è un delitto. Bisogna anche ricordare che Hamas detiene 240 ostaggi, e pure questo è un crimine censurato dalla Convenzione di Ginevra. E soprattutto: bisogna ricordare che non si deve parlare con superficialità della tragedia del 7 ottobre, derubricandola a banale episodio nella lunga storia del conflitto israelo-palestinese, o – peggio ancora –  esaltandola come una «gloriosa operazione militare». Così invece si è espresso il leader di Hezbollah in Libano, Hassan Nasrallah, nel lungo discorso che venerdì scorso ha tenuto incollati alla tv sia ebrei che palestinesi. Si temeva, infatti, una formale dichiarazione di guerra da parte di Hezbollah, e dunque l’ufficiale apertura di un secondo fronte bellico al nord, e l’estensione del conflitto a tutta l’area del Medio Oriente. Nasrallah si è invece limitato – se così si può dire – a esaltare l’eccidio, dichiarandolo però iniziativa autonoma di Hamas, e a formulare minacce generiche contro Israele, gli Usa e l’Occidente. Ciò che però emergeva da quelle parole era la volontà di demonizzare l’avversario – «l’entità sionista» – definendolo il «male assoluto». Posizione che mi sembra del tutto simmetrica a quella espressa dal premier israeliano Netanyahu e da altri esponenti del governo, che hanno più volte affermato che questa guerra si combatte tra «la civiltà e il bene» (cioè Israele) e «il male e la barbarie» (Hamas). Questa visione manichea e apocalittica mi sembra dominare la scena, ma rappresenta una caricaturale semplificazione della complessità della questione.

Passo quindi a una seconda riflessione, più legata alle emozioni generate dalla guerra. L’esasperazione del conflitto sta consolidando l’arroccamento sulle proprie posizioni da parte di entrambe le fazioni. Ciò produce un fenomeno che vorrei chiamare di “anestesia selettiva”. La concentrazione esclusiva sul proprio dolore impedisce qualunque forma di empatia nei confronti del dolore e delle ragioni della controparte, e dunque rende impossibile ogni forma di dialogo. Questa incomunicabilità assoluta mi ha riportato alla mente una scena del film “Willy Signori e vengo da lontano” (1989). Il protagonista della vicenda ha avuto un incidente di macchina e si sente colpevole della morte dell’altro guidatore. Angosciato, vorrebbe sfogarsi con il fratello, che vive paralizzato sulla sedia a rotelle, ma questi lo interrompe bruscamente: «Aspetta, anch’io ho un problema!», alludendo alla sua invalidità. Il dialogo prosegue concitato: «Sì, lo so, ma adesso io vorrei parlarti del mio problema…». «Ecco appunto – replica il fratello – è un tuo problema! Se tu risolvi il mio problema, io poi risolvo il tuo». I due fratelli finiscono per accapigliarsi e litigare, perché ciascuno è totalmente preso dal suo problema e non riesce a percepire il punto di vista e i sentimenti dell’altro. Ecco, in questi giorni mi pare che in Israele e Palestina siamo arrivati a questa “anestesia selettiva”. Ognuno è travolto e monopolizzato dal suo problema e dal suo dolore, e non sente altro. Per gli ebrei è la tragedia del 7 ottobre, la percezione di insicurezza nei confini nazionali, il sentirsi vittima di odio antisemita, il terrore di futuri attentati da parte di Hamas… Per i palestinesi è la storia di 70 anni d’ingiustizie patite, la tragedia dei morti sotto le bombe, la mancanza di prospettive per il futuro… Ognuno è ripiegato su di sé, e non riesce a offrire un minimo di comprensione o di disponibilità ad accogliere l’altro. La comunicazione così diviene impossibile. Ogni incontro si trasforma in scontro rabbioso e sterile, se non controproducente. La pace si allontana sempre più.

Su questo fronte – cioè la ricostruzione della disponibilità a contenere il proprio dolore per ascoltare quello dell’altro – ci sarà moltissimo da lavorare nei prossimi anni e decenni. Un delicato compito di mediazione e di educazione delle coscienze, al quale come cristiani saremo chiamati a offrire il nostro piccolo contributo. Dobbiamo ribadirlo con chiarezza: nessuna sofferenza da parte dei palestinesi potrà mai giustificare l’eccidio del 7 ottobre, anche se può aiutare a comprenderne i presupposti. Né le mostruosità commesse da Hamas e dai suoi affiliati possono legittimare la devastazione di Gaza, anche se aiutano a comprenderne le ragioni. Però tutti stanno annegando in un mare di sofferenza. Bisogna uscire da questo pantano morale. Di questo – credo – dobbiamo farci portavoce.

Vengo così alla situazione della nostra Chiesa. Qui a Gerusalemme tutto sommato si sta tranquilli. Certo, pochi giorni fa, nello stesso luogo dell’attentato della settimana precedente, un adolescente palestinese di 16 anni ha ucciso con un coltello da cucina una poliziotta israelo-americana di 20, e a sua volta è stato ucciso. Ogni commento è superfluo. Bisogna ricostruire una cultura di pace, cominciando dai bambini e dai ragazzi. Si percepisce malessere e paura. Ebrei e palestinesi cercano di evitarsi, per reciproco timore. Però – lo ripeto – a Gerusalemme non abbiamo la guerra vera e propria. Diversa è la situazione “oltre il muro”, ad esempio a Betlemme, dove l’isolamento crea disagi gravissimi. Eventualmente ne parlerò in una prossima lettera.
Noi cristiani ci sforziamo di fare la nostra parte e di non cedere alla logica della violenza. Domenica 29 ottobre nel santuario di Deir Rafat abbiamo celebrato la solennità di Maria “Regina di Palestina”, nostra patrona, consacrandole nuovamente questa Terra. Nei giorni seguenti, in diverse chiese e scuole della Terrasanta sono stati organizzati momenti di preghiera, tutti molto suggestivi. I pastori si impegnano nella ricerca del bene, esortando alla preghiera e alla penitenza. Le parole del patriarca, padre Pizzaballa, hanno sollevato alcune critiche sia da parte ebraica (o filo-ebraica), sia da parte araba (o filo-araba): segno che erano perfettamente equilibrate ed evangeliche. A Gaza, la minuscola comunità cattolica continua a pregare e a sperare, nonostante tutto il male che patisce, sostenuta dall’unico sacerdote ora presente e dalle tre piccole comunità di suore. Ci hanno mandato video che documentano la devastazione delle strade, della scuola cattolica, delle case… Un bomba ha fatto tremare la chiesa mentre i parrocchiani pregavano il Rosario. Ma la preghiera è proseguita, e i fedeli hanno continuato a invocare la pace senza odiare nessuno. Non cedono alla logica della violenza e della vendetta.

E con questo mi pare che siamo giunti al cuore del senso della nostra testimonianza cristiana in Terrasanta: aiutare a conservare e promuovere la dignità della persona umana. Negli ultimi tempi, a causa dello sviluppo dell’intelligenza artificiale sono sempre più frequenti nel web i cosiddetti Captcha (Completely automated public turing test to tell computers and humans apart), cioè quelle misure di sicurezza che fanno delle domande per accertarsi che l’utente sia una persona e non un computer. Spesso questi test chiedono: “Dimostra che sei un essere umano” o invitano a selezionare la casella “sono un essere umano”. Ogni volta che mi imbatto in queste domande, penso sempre: «Sì, sono un essere umano, e devo rimanere tale…». Lo ha detto in modo insuperabile l’ebrea Etty Hillesum, vittima innocente della barbarie nazista. «Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa – scrive nel suo Diario, pochi mesi prima di essere uccisa -: cercherò… di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me… L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini» (E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Mi-lano 1996, p. 169). Sì, in questo tempo tremendo, siamo chiamati a risvegliare la coscienza della dignità della persona umana, di ogni persona umana, ebrea o palestinese che sia. La scintilla del divino nel cuore dell’uomo, nel cuore di tutti, a partire da me. È doveroso, certamente, condannare il male e le atrocità commesse in queste settimane. Ma l’inumanità di una parte non giustifica l’inumanità dell’altra, mai. Vogliamo restare umani, dobbiamo restare umani: se perdiamo questo riferimento non ci sarà mai pace.

Certo, la pace nasce dalla giustizia. «Praticare la giustizia darà la pace», dice il profeta (Is 32,17), “opus iustitiae pax”. Ma in un contesto così ferito, la giustizia è irraggiungibile senza la disponibilità al perdono. «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono», ha detto san Giovanni Paolo II all’indomani dell’11 settembre 2001 (Messaggio per la pace del 1° gennaio 2002). Credo che al termine di questa guerra – perché anche le guerre finiscono… – trasmettere questa convinzione sarà il nostro principale servizio. È il Vangelo che ce lo insegna: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio… Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano…» (Mt 5,38-39; 43-44). E san Paolo scrive ai cristiani di Roma: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21 – sarebbe utile leggere il versetto nel suo contesto). Questo mi sembra il principale contributo che come cristiani possiamo offrire alla soluzione del conflitto. E soprattutto saremo chiamati a farlo quando la guerra sarà finita. Senza pretendere di insegnare nulla a nessuno, senza voler imporre a nessuno di perdonare controvoglia («la forza di perdonare, uno non se la può dare…», vorrei dire con don Abbondio). Siamo però in dovere di esprimere una convinzione che nasce dalla fede pasquale: il male non viene vinto dalla forza, ma superato con l’amore. Nessun irenismo semplicistico. La guerra farà il suo corso, è inevitabile. Ma poi si dovrà comunque ricostruire e ricominciare a vivere, uno accanto all’altro. La consapevolezza cristiana che il male si vince solo con il bene mi sembra una chiave importante per un futuro possibile.

10 novembre 2023