Don Morlacchi da Gerusalemme: «Non dobbiamo abituarci alla guerra»

Il sacerdote della diocesi di Roma fa il punto della situazione, mettendo in guardia da «uno dei rischi più gravi» di quanto sta accadendo: lo «sbriciolamento della fiducia sociale». La testimonianza di un giovane della parrocchia di Gaza: «La salvezza è nelle mani del mio Signore»

Dalla Casa Filia Sion, a Gerusalemme, don Filippo Morlacchi invia una nuova lettera, per offrire una lettura di quanto accade in Terra Santa, dove si è trasferito nel 2018. Arrivato con una convenzione triennale fidei donum per occuparsi della casa di accoglienza della diocesi di Roma, gestisce la struttura nata in un appartamento delle suore Francescane Missionarie di Maria nella quale trovano accoglienza sacerdoti, seminaristi e laici romani pellegrini nei luoghi santi, vicino alla Porta di Damasco, una delle principali porte della città vecchia di Gerusalemme. Di seguito il testo che ha inviato alla redazione:

Gerusalemme, 23 ottobre 2023

Non amo particolarmente scrivere, ma sento il dovere di condividere ancora qualche riflessione, in questa mia terza lettera, per aggiornare i miei amici sulla situazione qui in Terrasanta. Si rischia di abituarci a tutto. Anche alla guerra. E non dobbiamo farlo.

Oggi la mia agenda prevedeva l’arrivo di un gruppo di vescovi per una settimana di esercizi spirituali a Gerusalemme. Avremmo dovuto celebrare insieme la Messa stasera. Invece ho celebrato stamattina, nella parrocchia francescana di San Salvatore, per le esequie di un frate che il Signore ha chiamato a sé sabato scorso dopo una lunga malattia, più giovane di me di alcuni anni. E mi è venuto un pensiero strano: sì, si continua a morire anche di malattia. Non si muore solo uccisi da violenza omicida o da missili più o meno precisi. La vita e la morte combattono da sempre. E tanti progetti umani sfumano uno dopo l’altro…

In questo tempo incerto e oscuro, la «luce sicura per il nostro cammino» rimane la parola di Dio (cfr Sal 119/118, 105). Venerdì scorso il salmo responsoriale ha fatto pregare tutta la Chiesa cattolica con queste parole: «Sei tu il mio rifugio, Signore». Mi è stato facile immedesimarmi nei fratelli ebrei che, quando sentono il sibilo angosciante delle sirene di allarme, hanno pochi secondi per correre nello shelter in cui trovare riparo dalla pioggia di missili. Ma mi sono immedesimato anche nei fratelli palestinesi, che a Gaza lo shelter non ce l’hanno, e sotto i bombardamenti possono soltanto sperare e pregare: «Il mio rifugio sei tu, o Signore».

In questi giorni tremendi, la gente a Gerusalemme sta cercando di tornare alla normalità. Ma non è facile. Soprattutto perché si ha la sensazione di qualcosa di tremendo che può ancora peggiorare. I telegiornali vi informano, quindi non mi soffermo sui racconti. Tuttavia rimane difficile capire come stanno effettivamente le cose, quando i mezzi di comunicazione presentano due narrazioni degli eventi completamente diverse, anzi opposte e inconciliabili. Uno dei rischi più gravi di quel che sta accadendo, soprattutto nel medio e lungo termine, credo che sia proprio lo sbriciolamento della fiducia sociale. In una società già totalmente polarizzata in schieramenti contrapposti, ogni gruppo cerca di autolegittimare la propria posizione ribadendo la propria verità, e accusando sistematicamente di menzogna la controparte. Questo rende la tensione sociale più elevata che mai. Sforzarsi di essere equilibrati suscita insoddisfazione, malumore, contestazioni; talora perfino la rottura dei rapporti. Esprimere empatia per i figli di Israele, che hanno subito lo shock incalcolabile di sentirsi minacciati e indifesi anche all’interno dei confini di Israele, che piangono oltre 1.300 morti e sono in ansia per oltre 200 ostaggi, rischia di mettere in crisi le mie amicizie palestinesi. Manifestare solidarietà per la popolazione di Gaza, inerme e stremata, che da quindici giorni vive (o sopravvive… e molti nemmeno quello…) sotto i bombardamenti israeliani, senz’acqua potabile e senza elettricità, e che conta a oggi più di 5mila morti, induce alcuni amici ebrei ad accusarmi di essere complice delle efferatezze di Hamas. Spesso penso sarebbe preferibile il silenzio, perché le parole non riescono mai ad accontentare gli uni e scatenano invece l’indignazione degli altri. Vivo questa “afasia forzata” con profonda frustrazione.

Il tragico episodio della strage di civili nell’ospedale cristiano battista Al-Ahli, lo scorso 17 ottobre, è emblematico di questa situazione. Nessuna delle due ricostruzioni è secondo me totalmente convincente e presenta qualche punto debole. Ma il semplice esprimere questa considerazione rischia di allontanarmi da tutti. Mi astengo quindi dal tentare di ricostruire la verità, dato che ognuno, schiacciato dal dolore, si tiene stretta la sua, di “verità”, e neppure per ipotesi è disposto a prendere in considerazione le ragioni dell’altro. Mi soffermo invece sull’evidenza. È evidente che in questo momento tutti soffrono: soffre chi piange i suoi cari, chi è minacciato, e chi semplicemente sente di esserlo. È evidente che a Gaza la gente è allo stremo, e che due milioni di persone non potranno evacuare la zona in poco tempo. È evidente che un futuro di pace non si costruisce con la violenza.

In questo momento, la prossima mossa spetta a Israele, mi sembra. Deve decidere se ritiene prioritario salvare gli innocenti o punire i colpevoli. Agire mossi solo dal desiderio di vendetta o, peggio, spinti dall’orgoglio ferito potrebbe suggerire scelte dalle conseguenze catastrofiche. Ma anche il fronte opposto ha in mano delle carte: deve decidere se allargare il conflitto o cercare di disinnescarlo. Questo lo vedremo nei prossimi giorni, immagino.

Domenica 15 ottobre una coppia di sposi della parrocchia cattolica di Gaza ha chiesto di celebrare il battesimo del loro figlioletto Jubrail. Un po’ per cercare di far festa e stemperare l’angoscia della devastazione generale, un po’ perché non sanno se quella creatura sopravvivrà alla guerra, hanno voluto celebrare così la fede in Cristo risorto. I cristiani di Gaza sono una comunità molto viva ed ecumenica: i diciotto cristiani ortodossi – anziani, adulti, giovani e bambini – morti sotto le macerie dei locali della parrocchia ortodossa il 20 ottobre erano ben conosciuti da tutti i cattolici, e considerati membri della stessa comunità. Ho ricevuto le loro foto, scattate in momenti felici: sono davvero commoventi. I cattolici sono solo 135, e si rifugiano in chiesa sperando che almeno quella possa essere risparmiata dai missili. Ma il parroco mi ha detto che il loro pensiero è anche un altro: se devono morire, accanto al tabernacolo è il posto migliore. Avrei voluto riportarvi alcune commoventi parole di una religiosa che vive nella parrocchia di Gaza, ma preferisco trascrivere la testimonianza di un ragazzo, pubblicata oggi su L’Osservatore Romano. È un giovane della parrocchia, che fa spesso il chierichetto. Una testimonianza di fede che può far riflettere.

«Ciao a tutti. Mi chiamo Suhail Abodawood, vivo a Gaza e ho 18 anni. Il 7 ottobre è iniziata la guerra. Non parlerò di politica; parlerò in modo spirituale. All’inizio pensavo di sognare, ma poi ho capito che non era uno scherzo. Abbiamo lasciato le nostre case e siamo andati in parrocchia, la chiesa della Sacra Famiglia (una chiesa cattolica), perché so che la salvezza e la sicurezza sono nelle mani del mio Signore Gesù Cristo. Proprio ora sto pregando e digiunando nella chiesa, e credo fortemente che questo sia il momento giusto per far crescere e migliorare la mia vocazione in questa triste e difficile situazione, recitando il Rosario, partecipando alla Santa Messa quotidiana e meditando con grande fede, e che Dio ci salverà dalla guerra. Prego nella chiesa ogni giorno, e ogni volta che prego sento forti rumori di razzi che cadono in un posto vicino alla chiesa, ma quando uso la fede, tutto ciò che m’interrompe scompare. Come ha detto san Carlo Acutis, “da sempre siamo attesi in Cielo”. Stiamo attendendo la nostra salvezza con cuore grande e siamo sempre consapevoli che la speranza cristiana è la più forte in assoluto. Nostro Signore Gesù Cristo ci salverà da questi giorni difficili e crediamo che fintanto che i nostri cuori saranno con Gesù, saremo sempre in un luogo sicuro e una sicurezza duratura». (L’Osservatore Romano, 23/10/23, p. 2).

Per volontà di Papa Francesco, venerdì prossimo, 27 ottobre, sarà una giornata di digiuno e preghiera per la pace. Io la inaugurerò celebrando la Messa al Santo Sepolcro, nella tomba vuota, alle 6.30 del mattino. Avrei dovuto esser lì insieme con i Vescovi venuti per gli esercizi spirituali, e invece… Ho disdetto le altre celebrazioni che avevo organizzato per loro in diversi santuari nel corso di questa settimana, ma la Messa di venerdì mattina al Sepolcro l’ho confermata. Andrò lì, da solo. O forse con qualche cristiano che vorrà unirsi a me, e pregheremo per la pace. Sperando che nel frattempo la violenza non si sia già scatenata in forme ancora più brutali e mostruose. Ma nella fede celebreremo in ogni caso la speranza cristiana: «Mors et vita duello conflixére mirando: Dux vitae mortuus regnat vivus» (Sequenza Pasquale). E la Parola di Dio sarà ancora luce ai nostri passi: «…Vidi la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. E soggiunse: “Scrivi, perché queste parole sono certe e vere”» (Ap 21,2-5).

24 ottobre 2023