Don Gioacchino Rey, il parroco del “nido di vespe”

Cappellano militare nel primo conflitto mondiale, fu parroco al Quadraro durante il secondo. Nel 2017 la medaglia al merito civile, consegnata da Mattarella a De Donatis

Si è da poco ricordato il 25 aprile, la festa della Liberazione che coronò la lotta degli italiani per liberare il Paese dalla dittatura fascista e dalla occupazione nazista. La Resistenza, che di tanti valori ha innervato la Costituzione, ha visto protagonisti quanti hanno combattuto, quanti si sono attivati per rianimare i circuiti della partecipazione politica, ma anche quanti nel loro ambito, hanno difeso valori di libertà, umanità e dignità che venivano quotidianamente negati. Una figura da ricordare, in questo senso, è sicuramente don Gioacchino Rey, parroco di Santa Maria del Buon Consiglio, al Quadraro. Il quartiere veniva definito dal comando nazista di Roma come «un nido di vespe» per la vivace attività resistenziale che lo caratterizzava. L’estrema periferia della città divenne presidio della difesa dell’umanità, senza conoscere alcuna barriera nei confronti di chi aveva bisogno di aiuto.

Don Rey era nato a Lenola, piccolo paese oggi in provincia di Latina, il 26 luglio 1888, ed era stato ordinato prete diocesano di Gaeta il 19 luglio 1914. Durante il primo conflitto mondiale fu cappellano militare e venne decorato con la Medaglia di bronzo e la Gran Croce al merito. Ma il titolo a cui teneva di più era quello che gli diede in seguito Pio XII, che lo definì il «parroco delle trincee». Nel 1929 divenne parroco di Santa Maria del Buon Consiglio, una parrocchia dell’estrema periferia romana che si trasformò in una nuova trincea con l’occupazione nazista di Roma, durate la seconda guerra mondiale. A quei tempi, come diceva il consigliere d’ambasciata nazista Molhausen, chi voleva sfuggire ai nazisti aveva due strade: o rifugiarsi in Vaticano o nascondersi al Quadraro.

Alle 4 del mattino del 17 aprile 1944, il lunedì dopo la domenica in Albis, le truppe tedesche circondarono il quartiere e cominciarono a perquisire le case portando via tutti gli uomini dai 16 ai 55 anni. Il rastrellamento nazista, che venne definito in codice «Operazione balena», era stato progettata direttamente da Kappler, che meno di un mese prima si era reso responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, e che due settimane prima aveva fatto fucilare don Giuseppe Morosini. Che il rastrellamento avvenisse per ritorsione contro l’uccisione di alcuni soldati tedeschi avvenuta in zona, o per eradicare i gruppi locali della resistenza, fu comunque una tragedia. Don Rey si diede da fare per salvare tutti quelli che poteva, senza badare a bandiere e appartenenze.

Tra questi figurava anche Adriano Ossicini, scomparso lo scorso febbraio. Egli, psichiatra e accademico, che fu partigiano e poi politico (fino a guidare il ministero per la Famiglia e la solidarietà sociale a metà anni Novanta), quel 17 aprile 1944 si trovava proprio al Quadraro per la sua attività nella Resistenza. Dormivo in casa di un esponente locale della Resistenza e ha raccontato: «Su incarico di don Gioacchino Rey, che era al corrente della nostra presenza, giunse un’anziana signora dicendoci che dovevamo allontanarci rapidamente dalla casa, in quanto i tedeschi stavano effettuando un rastrellamento nella zona. Senza por tempo in mezzo, uscimmo e ci dirigemmo di corsa verso Tor Pignattara. Quasi incrociammo le forze tedesche che arrivavano, cantando a passo di marcia, a chiudere il perimetro della zona del rastrellamento. Li evitammo solo per qualche attimo».

Nel rastrellamento i tedeschi presero oltre 1.500 tra ragazzi e uomini, che furono radunati nel cinema del quartiere, poi trasferiti a Cinecittà. I più giovani ed i più anziani furono poi rilasciati mentre circa 950 adulti ritenuti abili al lavoro furono trasferiti al campo di Fossoli e da lì in campi di lavoro in Germania. Ricordava ancora Ossicini che don Rey accorse a Cinecittà, dove dietro un recinto di filo spinato erano ammassati le centinaia di rastrellati, «ma poté solamente raccogliere una quantità di bi­glietti da quelli che glieli riuscivano ad affidare per le famiglie, ben presto però fu cacciato via con violenza e malmenato». Il sacerdote però compilò una lista, per non perdere la memoria di nessuno dei rastrellati, che sarebbe stata fondamentale alle vittime della deportazione per vedersi riconosciuti i diritti – provvidenze qualifiche dovute per legge – derivanti dalla condizione sofferta.

Don Rey provò a offrirsi come ostaggio al posto dei suoi parrocchiani, ma senza successo. Poi fece la spola tra le famiglie e i prigionieri. Riuscì a far liberare il medico condotto e il farmacista, indispensabili alla piccola comunità del Quadraro. Nei mesi successivi si prodigò per le donne rimaste sole coi bambini, quelle famiglie che avevano perso gli uomini e con essi la maggiore fonte di sostentamento.  Il suo aiuto arrivò a chi ne aveva bisogno a prescindere dalla  fede professata, dalle idee politiche, dalla provenienza.

Chi conobbe il parroco quando era bambino, come Sergio Frezza, ricordava ormai ultranovantenne quel prete buono che andava a scuola ad ascoltare i problemi dei bambini, o li accoglieva all’Oratorio, li sfamava e gli faceva sembrare meno dura la vita degli anni della guerra. Molti dei deportati riuscirono a tornare e ritrovarono le famiglie che avevano sopportato la loro assenza anche grazie all’aiuto di don Rey. Ma non ritrovarono ad attenderli il loro parroco, che il 13 dicembre 1944, meno di otto mesi dopo il rastrellamento, era morto in un incidente stradale nella Roma finalmente liberata.

Don Gioacchino Rey è stato il terzo prete morto a Roma durante la seconda guerra mondiale a essere insignito della medaglia d’oro al merito civile, dopo don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo. Il riconoscimento è stato concesso dal presidente Mattarella, che ha firmato il decreto il 7 aprile 2017 e ha consegnato l’onorificenza  a monsignor Angelo De Donatis, vicario del Papa per la diocesi di Roma, il 12 ottobre successivo. Intanto, dal 23 luglio 2017 le spoglie di don Rey, precedentemente sepolte al Verano, sono state traslate nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Lenola, il suo paese natale.

8 maggio 2019