Don Belvederi, l’archeologia come opportunità pastorale

Origini bolognesi, il sacerdote fu chiamato a Roma da Pio XI per la valorizzazione delle catacombe. Tra i compagni di Seminario il futuro Papa Roncalli

C’è l’impegno di un prete bolognese, fattosi romano, dietro la valorizzazione nel Novecento di uno dei tesori religiosi ed archeologici romani: le catacombe. Se nel XIX secolo, grazie all’opera di don Giovanni Battista de Rossi, ampie campagne di ricerca avevano permesso l’ampliamento della rete conosciuta delle tombe dei cristiani dei primi secoli, è con il XX secolo che ha avuto incremento la valorizzazione a livello popolare, anche come strumento pastorale.

Nel 1922 il nuovo Papa, Pio XI, chiamò a Roma don Giulio Belvederi, un prete felsineo colto e appassionato di archeologia. Il Papa l’aveva conosciuto alla Biblioteca Ambrosiana e, apprezzate le sue qualità, lo aveva fatto chiamare a Roma perché si prendesse cura degli studi e della cura delle catacombe romane. Così don Belvederi entrò a far parte della Pontificia commissione di archeologia sacra.

Don Giulio era nato a Bologna il 3 aprile 1882 in una famiglia agiata. Il padre, Luigi, aveva sposato la contessa Vittoria Delfini Dosi, nipote del cardinale Pietro Respighi, vicario di Roma dal 1900 al 1913. Il piccolo Giulio era il secondo di nove fratelli, e, ottenuta la licenza liceale classica nel collegio barnabita, decise di abbracciare la vocazione sacerdotale. I primi dubbi della famiglia furono fugati dallo zio materno che sostenne il giovane facendolo trasferire a Roma e inserendolo nel 1900 nel Seminario Pio di Roma. Uno dei primi compagni del giovane Giulio fu un giovane bergamasco di famiglia contadina, Angelo Giuseppe Roncalli (il futuro Giovanni XXIII), che gli rimase amico per tutta la vita.

L’ordinazione sacerdotale avvenne il 17 dicembre 1904 per mano del cardinale Respighi. L’anno successivo don Belvederi conseguì la laurea in sacra teologia, continuando a frequentare i corsi giuridici all’Apollinare. Il clima romano di inizio secolo si deteriorò a causa del furore antimodernista che stravolse l’entusiasmo per gli studi. Tanto Belvederi che Roncalli furono preservati da quel clima perché chiamati entrambi all’incarico di segretari dei vescovi delle loro diocesi. Roncalli nel 1905 fu chiamato come segretario personale da Giacomo Radini Tedeschi, nuovo vescovo di Bergamo; nello stesso anno Belvederi divenne segretario del cardinale Domenico Svampa, arcivescovo di Bologna, e restò al suo servizio fino alla morte del cardinale nel 1907.

Da quel momento il giovane don Giulio insegnò Sacra Scrittura ed ebraico nel Seminario di Bologna, coltivando gli studi di archeologia, e prese a collaborare col quotidiano bolognese cattolico L’Avvenire d’Italia. Alla fine della Prima guerra mondiale il giovane sacerdote proseguì il suo impegno in campo culturale e nell’insegnamento. Ma allo stesso tempo crebbe come punto di riferimento di molti giovani studenti medi e universitari cattolici che lo sceglievano come padre spirituale. Giunto a Roma per volontà del Papa, dopo due anni, nel 1924, Belvederi diede vita all’associazione «Amici delle Catacombe», una rete di persone anche facoltose, che col loro contributo permisero di acquisire terreni presso le catacombe. Su quei terreni il Belvederi provvide a far costruire edifici da adattare all’accoglienza dei pellegrini presso le catacombe di Pretestato, di San Callisto, di Domitilla e di Priscilla. L’anno successivo fondò il Pontificio istituto di archeologia cristiana e ne divenne primo segretario, promovendo anche la pubblicazione di un periodico, la «Rivista di Archeologia cristiana», che lo vide amministratore e segretario.

Nel 1926 successe al suo maestro Orazio Marucchi sulla cattedra di archeologia cristiana al Pontificio ateneo di Propaganda Fide. A quell’incarico tenne molto, anche se fu per lui fonte di dolorose vicende per dissidi nati con personalità ecclesiastiche. Per Belvederi la ricerca archeologica poteva avere una funzione pastorale, ricollegando e vivificando l’esperienza religiosa dei contemporanei con quella dei primi cristiani. La sua carica spirituale connessa alla cultura ne fece un attivo protagonista di catechesi e direzione spirituale rivolte al mondo giovanile. Ma la sua direzione fu richiesta anche da congregazioni religiose e organizzazioni del laicato.

Fu molto attivo nella direzione di congregazioni femminili, e in particolare, anche se per vie complesse e attraverso vicende contrastate, diede vita alla Comunità delle benedettine di Priscilla, dal nome del luogo dove è iniziata la congregazione. Le suore erano chiamate ad aiutare l’azione tesa ad avvicinare i cristiani alle catacombe quali testimonianze della fede primitiva capace di ravvivare la carità. Don Belvederi diede alle sue discepole la regola benedettina: preghiera e lavoro, vita incentrata sulla lode di Dio nella celebrazione della Messa e dell’Ufficio divino; lavoro a servizio della Chiesa svolto nell’ambito della casa religiosa. Nel convento delle catacombe di Priscilla fu avviata anche una tipografia gestita dalle suore dove si stampava il “Bollettino degli Amici delle Catacombe”, organo dell’associazione degli “Amici delle catacombe”, pubblicato tra il 1930 ed il 1946.

Quando giunse la seconda guerra mondiale, in particolare il periodo dell’occupazione nazista di Roma, le catacombe di Priscilla furono usate da don Belvederi anche per dare riparo a quanti sfuggivano alla cattura. Tra questi la famiglia Camerino, di un mosaicista romano che donò dopo la guerra una sua opera che ora adorna la cappella del monastero delle catacombe. Vi trovò rifugio anche l’archeologa ebrea tedesca Hermine Speier, che dopo essere stata licenziata dall’Istituto archeologico germanico per le sue origini, era stata assunta da Pio XI per riordinare l’archivio fotografico dei Musei Vaticani. La tipografia fu usata per stampare documenti falsi per i ricercati. Il rifugio, poi, era sicuro perché in caso di perquisizione i ricercati potevano fuggire per un accesso segreto nella vicina catacomba.

Ammalatosi gravemente nel 1957, don Giulio morì il 28 settembre 1959. Papa Giovanni XXIII, venti giorni prima della sua morte, lo visitò personalmente e nei giorni successivi inviò spesso il suo segretario personale, monsignor Capovilla, per dargli conforto. Inoltre papa Roncalli volle andare a pregare di persona presso la tomba dell’amico nel monastero sabino di Montefiolo.

In una lettera del dicembre 1927, quando Roncalli era delegato apostolico in Bulgaria, il futuro Papa aveva scritto a Belvederi: «Il Signore ti ha arricchito del dono di essere sempre lieto e di portare dappertutto una nota di letizia. Non è piccolo dono. Con questo si attirano le anime e si fa loro amare la virtù, la Chiesa e il Santo Padre». Era il riconoscimento di una grande vocazione.

marzo 2021