“Dio è morto”, la storia di un brano che ha fatto epoca

Censurato dalla Rai anche se nella hit parade grazie ai Nomadi, fu trasmesso da Radio Vaticana. Così Guccini parlò della sua “creatura”

Francesco Guccini aveva 25 anni quando scrisse “Dio è morto”. Una canzone rivoluzionaria in quel tempo: era la metà degli anni ‘60. È ormai cosa nota che la Rai la censurò – anche quando il brano era entrato nella hit parade dei dischi più venduti – e l’unica emittente a diffonderla, in un’epoca in cui ancora non esistevano le emittenti private, fu Radio Vaticana, come è stato ricordato nei giorni scorsi in occasione dei 90 anni della “radio del Papa”.

Una denuncia contro il conformismo, il carrierismo, l’ipocrisia, che ha fatto epoca. L’incipit, come lo stesso Guccini spiegò, gli fu ispirato da una famosa poesia dello statunitense Allen Ginsberg scritta alcuni prima, che diede il via alla beat generation, Howl (“Urlo”): «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia…».

Una canzone generazionale, ha puntualizzato Guccini in più occasioni, che però conserva ancora la sua attualità. Sia quando evoca luoghi simbolo o mali drammatici che hanno segnato e segnano tuttora la nostra epoca (i campi di sterminio, i miti della razza, gli odi di partito), sia quando denuncia «le fedi fatte di abitudine e paura / una politica che è solo far carriera / il perbenismo interessato la dignità fatta di vuoto / l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto». Di canzoni così ci sarebbe sempre bisogno, tanto che il pubblico l’ha sempre chiesta a gran voce ai concerti del cantautore emiliano, dove i giovani la conoscevano a memoria.

I primi versi di “Dio è morto”, disse Guccini una decina di anni fa in un’intervista a L’Osservatore Romano, «sono un’accusa, gli ultimi risentono del pacifismo che c’era allora, ed era una mia risposta a un extraparlamentarismo che sentivo come troppo violento. Del resto, l’aggiunta finale della speranza non mi venne dalla volontà di trasmettere il canonico happy end, ma dal fatto che all’epoca la speranza covava veramente. Certo, il “dio” di cui parlavo era un “dio” con la minuscola, un “dio” laico simbolo dell’autenticità».

Ma la canzone (e l’artista) ebbe subito un’eco straordinaria anche nel mondo cattolico. Il primo recital di Guccini – era il dicembre 1968 – fu proprio alla Cittadella di Assisi, e poco dopo andò anche a Loppiano, dai Focolari. Fu l’inizio di un feeling consolidatosi con il tempo. Fino all’omaggio per gli 80 anni del cantautore da parte del Meeting di Rimini, la scorsa estate, grazie alla testimonianza del cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna.

“Dio è morto”, che ha avuto molte cover, fu inciso nel 1967 da Caterina Caselli. «Con molto coraggio», precisò Guccini nel volume “Stagioni”, «perché era stata rifiutata dall’Equipe 84, per il timore di rovinarsi l’immagine». A portarla al successo furono i Nomadi, con una interpretazione ben diversa, che la fece salire nella hit parade per 13 settimane. Guccini – che con lo storico gruppo allora guidato da Augusto Daolio la propose in “Album concerto” registrato dal vivo nel 1979 – lo ha ricordato proprio nelle scorse settimane subito dopo la morte del produttore Edoardo Veroli (“Dodo”): fu lui a convincere i Nomadi ad ascoltare “Dio è morto” e altre canzoni del cantautore. Anche per loro fu solo l’inizio di una storia insieme a questa canzone, che continua ancora oggi in tutti i concerti.

16 febbraio 2021