Dicembre 1984, Avvento di fraternità dedicato ai detenuti  

Su Roma Sette l’invito del Centro pastorale per l’animazione della comunità cristiana. Nell’articolo spazio anche agli ex terroristi

L’Avvento è tempo di attesa. Si prepara l’incontro con una persona, Gesù. Ed è qui il significato dell’invito che il Centro pastorale per l’animazione della comunità cristiana e dei servizi socio-caritativi ha rivolto a tutta la Chiesa di Roma. Essa deve farsi più attenta e condividere le necessità di quanti sono fuori la porta delle nostre case e delle nostre associazioni. Il Figlio di Dio bussa nuovamente attraverso queste persone e senza di esse il Natale resta privo di senso.

In particolare, in questa seconda settimana di Avvento l’accento viene posto su un problema che è ormai lasciato agli addetti ai lavori, quello delle carceri. I detenuti, che solo a Roma sono oltre quattromila, con un passaggio attraverso le sei carceri romane di circa trentamila detenuti l’anno, sono stati rimossi dalla coscienza della comunità.

Si è preferito immaginare che in carcere ormai si stia bene, ci sia il televisore, ma non si dice che oltre il settanta per cento delle carceri italiane risale a prima del 1900, con tutti i disagi che questo comporta; né che hanno più di quarantatremila presenze, mentre me potrebbero contenere la metà. Di fronte a questa situazione non si può rimanere indifferenti, né si può accettare che, grazie al disinteresse, prosperi in tali ambienti la violenza, il ricatto, la droga. Ogni uomo umiliato, offeso, anche se colpevole e carcerato, rappresenta una sconfitta per la coscienza civile e cristiana. Per tutti vale il principio della salvaguardia della dignità persone.

Del resto le ultime notizie provenienti dalle carceri testimoniano l’impossibilità di risolvere il problema della violenza o del terrorismo con la sola efficienza giudiziaria e la detenzione. Le tante dichiarazioni di terroristi in carcere aprono infatti strade inimmaginate; una frase per tutte, di Alberto Funaro, detenuto a Rebibbia: “Ti ringraziamo, Signore, di aver concesso a noi, povera e libera comunità senza passato, di sperare in un futuro (…) nel segno di una libertà più autentica di ogni liberazione e più forte di qualsiasi carcere”.

Molti ex terroristi, la cui maggioranza è al di sotto dei trenta anni, senza sottrarsi alle responsabilità del passato, mostrano la volontà di riparare, di riconciliarsi nel senso cristiano con la comunità degli uomini. Parole come educazione e reinserimento, tante volte dimenticate del disinteresse e nell’egoismo di chi sta fuori, tornano di attualità nella ricerca di nuove strade di dialogo e di comprensione reciproca per costruire una società nuova. A tali aspettative ha già fatto eco il Cardinale Carlo Martini: “potrà la Chiesa e la comunità cristiana a cui non pochi detenuti, anche se non credenti, prestano attenzione per quanto essa fa per la pace e la promozione dell’uomo, potrà non tener conto di questo grido e non dare una mano in questo cammino?”.

Certamente non tutti i detenuti la pensano così, ma il carcere è un luogo di frontiera sul quale la società si gioca la propria credibilità. A uomini sconfitti, disillusi, a volte carichi di rancore, essa deve essere in grado di donare valori e principi per i quali valga la pena di ricominciare. Ai cristiani è chiesta la coerenza di testimoniare non solo il perdono, ma le ragioni della propria speranza, in una città come Roma in cui l’impegno privato sembra avere preso il sopravvento su quello a favore della comunità.

Non esistono solo i detenuti, ci sono anche le loro famiglie spesso emarginate e, ancora più grave, permangono le situazioni in cui gli errori e le deviazioni sono avvenute. Alle spalle dei carcerati c’è spesso un ventaglio di emarginazioni e disuguaglianze che investono i vari settori della vita quotidiana e aspettano una risposta, anche piccola, l’importante è farsi portatori dell’augurio e della preghiera che il Cardinale Martini rivolse ai detenuti di San Vittore a Milano: “Che ciascuno possa vivere questo Natale sentendo che c’è una grazia e una salvezza pronta per lui”. Nell’ambito dell’Avvento di Fraternità, come segno concreto, la Caritas propone di digiunare un pasto, donando l’equivalente. (di Pietro Cocco)

9 dicembre 1984