Dentro le poesie di Giorgos Seferis la lezione di Eliot e Pirandello
Con il poeta greco, la mitologia antica si stacca dalla biblioteca e comincia a scorrere nel nostro sangue assumendo il valore di richiamo perenne alla solitudine dell’uomo occidentale
«E un’anima / se si vuole conoscere / in un’anima / rimiri: / lo straniero, il nemico, lo vedemmo allo specchio». Sono versi, indimenticabili, di Giorgos Seferis, uno dei più grandi poeti dei tempi moderni, nato a Smirne nel 1900 e morto ad Atene settantuno anni dopo: egli li ricavò, con scelta temeraria, da Platone, quasi portandoli a riva dopo averli ripescati nel fondo. Il suo nome per noi italiani si lega in modo irresistibile a quello di Filippo Maria Pontani, il grecista che per primo lo tradusse, a tal punto da lasciar filtrare nella sua pronuncia lirica qualcosa della nostra. Quel celebre testo, ricavato dagli Argonauti, i mitici cinquanta eroi che sotto la guida di Giasone partirono a bordo della nave Argo per riconquistare il vello d’oro, finiva così: «Non li ricorda più nessuno. È giusto».
È Grecia, sì, lo è fin dentro il midollo, ma siamo a ben riflettere tutti noi, schiacciati al muro a cui è destinata ogni generazione nel momento in cui vede l’impossibilità di consegnare davvero il proprio testimone: sta qui la forza di un poeta unico, Premio Nobel per la letteratura nel 1963 («La poesia è un atto di fiducia», dichiarò nel discorso di accettazione), di cui Nicola Crocetti manda in stampa un’antologia, Le poesie (pp.267, 18 euro) che ci si augura possa risultare utile soprattutto a chi per la prima volta affronti capolavori come La cisterna, Giornale di bordo, Il tordo, per citarne soltanto alcuni. Con Seferis, segnato in modo indelebile dalla sconfitta greca del 1922, quando i turchi, riconquistando la sua città natale, misero fine per sempre al dominio ellenico, la mitologia antica si stacca dalla biblioteca e comincia a scorrere nel nostro sangue assumendo valore emblematico, quale richiamo perenne alla solitudine dell’uomo occidentale, orfano di una saggezza inattingibile e purtroppo sempre scalfita, per non dire oltraggiata, dalla cecità umana.
Non si spiegherebbero altrimenti gli scarti fantasmatici fra il peso della tradizione che ci ha formati e il clamore quasi indecifrabile della vita urbana novecentesca: «Ci ha pensato nessuno a quanto soffre un farmacista / sensibile di guardia nella notte?» (L’aria di una giornata). Sono questi i lampi seferiani più autentici: quelli degli uomini perduti nelle stanzette d’albergo, «nelle vie nelle stanze sotto gli alberi di pepe / mentre i fari delle automobili uccidono / migliaia di maschere pallide», quando la memoria della giovinezza trascorsa scende su di noi come una benedizione, «Pure, ho amato una volta il Boulevard Singròs, / duplice ondeggiamento, come di culla, della grande strada / che ci lasciava prodigiosamente al mare / perenne, per lavarci dei peccati» ( Una parola sull’estate).
Seferis, capace di mettere a frutto la lezione di Eliot insieme a quella di Pirandello, trascorse all’estero molta parte della sua vita, prima come studente a Parigi, poi in esilio a Londra, ma non dimenticò mai lo scenario mediterraneo. Basterebbero questi versi, tratti da Idra in Leggenda, a dimostrarlo: «Delfini, vessilli, cannonate», per dire in un sintagma ciò che nessun discorso potrebbe fare. E gli ultimi, ripresi dalla stessa poesia, nella domanda ripetuta che pulsa come un martello dentro la coscienza assetata: «…(Calavano già i lumi, / la città sprofondava, e dalle lastre / di pietra il Nazareno ti mostrava il suo cuore). / Che cercavi? perché non vieni? che cercavi?».
3 novembre 2020