“Decameron” dei Taviani, metafora per l’oggi

Lasciandosi andare a una «semplicità» di rappresentazione sempre più scoperta, la regia aderisce a una bella forma che contempla se stessa

Lasciandosi  andare a una «semplicità» di rappresentazione sempre più scoperta, la regia aderisce a una bella forma che contempla se stessa

Annata da ricordare per il rapporto cinema-letteratura italiana. Subito dopo la Mostra di Venezia, è uscito in sala Il giovane favoloso, che ha permesso di riportare l’attenzione sul poeta di Recanati. Adesso tocca al Decameron, punto fermo della cultura europea del Trecento, scritto da Giovanni Boccaccio. L’autore vi racconta cento novelle, i fratelli Taviani ne scelgono cinque per il film uscito venerdì scorso nelle sale. Siamo a Firenze nel 1348 al tempo della peste. Di fronte a uno scenario in sfacelo, dieci giovani (sette ragazze e tre ragazzi) decidono di rifugiarsi in campagna e impiegare il tempo, raccontandosi delle brevi storie.

Protagonista l’amore nelle sue innumerevoli sfumature. Ecco Gentile Carisendi e Catalina; l’ingenuo Calandrino che crede di essere invisibile, il Duca Tancredi, la sua sfortunata figlia Ghismunda e il suo amante Guiscardo; la Badessa Usimbalda, Federico degli Alberighi, il suo amato falcone, la bella Giovanna e il suo figlioletto Rinuccio. Solo cinque storie. Forse poche, ma alla inesauribile ricchezza inventiva di Boccaccio, i fratelli nobili del cinema italiano (primo film nel 1962 e, da soli, nel 1967: secoli fa) oppongono una rinnovata ariosità descrittiva, che apre il copione, affidando il dramma della peste a immagini di plastica, dolorosa drammaticità.

Quando l’asfissiante malattia lascia il posto a leggerezze agresti, si intuisce che lo scambio di ruoli è avvenuto, lieve ma deciso. Con sottile traslato dialettico, le pesti di ieri diventano quelle di oggi (Stati, identità, migrazioni, fame…) e a guidare il cambiamento sono i giovani (più donne che uomini) pronti a dedicarsi agli argomenti che più interessano loro (affetti , sentimenti, rapporto genitori/figli…). Si tratta di un richiamo abbastanza immediato, che i registi fanno poco sforzo per rendere più avvincente, provocatorio, imprevedibile.

Lasciandosi  andare a una «semplicità» di rappresentazione sempre più scoperta e liberatoria, la regia aderisce a una bella forma che contempla se stessa e non scava nel problematizzare gli argomenti. Nel 1970 Pasolini realizzò una versione tutta differente, virata sul sanguigno, sul popolaresco, anche sullo «scandaloso» del testo originario. Da cui poi prese il via, in modo inopinato, la definizione negativa di «boccaccesco».

Qui c’è più calma, forse più preoccupazione,soprattutto prevale un gusto retrò che riveste luoghi e ambienti e fa pensare al testo, puntando molto sulla tendenza a rileggerlo in chiave di metafora per l’oggi. Una versione dunque più riflessiva che esteriore. Un invito importante a tornare a leggere quelle lontane pagine.

 

2 marzo 2015