Dario Fo e Bob Dylan, uniti dal Nobel

I due cantori della seconda metà del ‘900 come in un passaggio di consegne. Così diversi, ma con uno sguardo sempre attento agli ultimi

Due cantori della seconda metà del ‘900 hanno incrociato i loro destini, come in un  passaggio di consegne. Così diversi, ma con uno sguardo sempre attento agli ultimi

Due cantori della seconda metà del Novecento, e non è una figura retorica: anche Fo cantava, ha inciso dischi e ha composto canzoni, “Ho visto un re”, tanto per fare un esempio, per Enzo Jannacci. E adesso che dobbiamo fare a meno, ma solo fisicamente, di uno dei due artisti di strada, sappiamo che pure l’altro era da Nobel. Lo è, vista l’investitura svedese, che sarà discutibile, ma chiarisce quello che da anni andiamo sostenendo, che alcuni testi di canzoni sono più che semplici poesie. Caratteri diametralmente opposti, giocherellante e mimetico l’italiano, chiuso e ombroso l’americano, eppure con radici assai simili: i cantori di strada. Quelli che raccontavano le storie, i viaggiatori che si attendevano di fronte al camino per ascoltare storie lontane – addirittura altre regioni che non quella dei laghi! – affabulatori il cui unico scopo di vita era di raccontare, perché raccontare salva, perché ti ascoltano per accendere la fantasia che è il motore delle leve umane: medicina gratuita assieme al bicchiere di quello buono, il sigaro o la nazionale senza filtro. O cantanti girovaghi come Woody Guthrie cui non bastava la sala di incisione o il pubblico istituzionale, ma che vedevano nella strada, (era la stessa generazione di Jack Kerouac, quello del libro-bandiera della beat generation, “On the road”), il posto vero dove suonare la chitarra.

L’uno, il nostro, ha poi approfondito quelle radici, andando a pescare nel medioevo, nella mescolanza linguistica, nella mimica facciale e nell’invenzione all’impronta, nei giullari e nei cantori di strada le origini della letteratura, non solo quella popolare. L’altro, Robert Allen Zimmermann, a settantacinque anni viene insignito dal riconoscimento ufficiale per eccellenza, quello contestato, certo, mal visto da molti (il grande poeta Luzi non ha mai avuto questo riconoscimento, e neanche Yves Bonnefoy, che pure era grande, e queste sono gravi sviste) dopo essere stato il contestatore per eccellenza di quel mondo paludato e ufficioso. Uno anticlericale e con remore verso l’ufficialità religiosa, ma nel contempo ammiratore convinto dei santi appartenuti alla strada, ad esempio Francesco d’Assisi, e del Papa che ne porta nome, suggestioni, e prassi, e di quel popolo-Chiesa schierato a difesa dei nuovi diseredati della terra, l’altro assai sensibile ai temi della fede anche nelle canzoni protestatarie, che recavano spesso riferimenti a personaggi biblici, evangelici, all’Eden e ai profeti.

Nulla è mai così semplice quando si parla di poeti dalla così lunga storia alle spalle, gente che ha accompagnato con le parole, i gesti, gli accordi di chitarra e le polemiche interi decenni di storia. Non si potrebbe pensare al ritorno al teatro di strada e a quello medioevale senza l’apporto di Fo, e non si potrebbe pensare a De Gregori, certo Battisti, Tito Schipa jr. senza “Chimes of freedom” del menestrello di Duluth, per non citare l’immortale “Blowin’ in the wind” che veniva suonata anche in chiesa.
L’amore per san Francesco e i poveri nella fede – unito all’ammirazione per il Papa e all’amicizia per don Andrea Gallo – di Fo si univa al dolente tributo di Dylan ai senza fissa dimora e a coloro che la società ha bollato come underdog, perdenti per elezione e per pronostico, i non-benvenuti, gli ultimi: le «campane della libertà» suonano «per i guerrieri la cui forza è non combattere, per i rifugiati sull’inerme via della fuga (…) per il ribelle, per il miserabile, per lo sfortunato, l’abbandonato il rifiutato, per l’escluso costantemente bruciato al rogo». Ed eravamo nel 1964: potenza profetica della poesia che sembra parlare d’oggi.

Il giullare se ne è andato per la sua strada, il menestrello è entrato dentro palazzi che i suoi underdog non si sarebbero mai sognati, luoghi dove si decide chi è il poeta ufficiale, altro che ultimo della lista. È l’ironia di un mondo fatto così, in cui qualcuno domina e fa i soldi, e qualcun altro scappa e fa la fame. Di questi ultimi hanno parlato, e parlano, i giullari e i menestrelli dei nostri tempi. (Marco Testi)

14 ottobre 2016