Dalla lotta armata all’impegno per gli altri

Aprile 1992: l’intervista di Roma Sette a monsignor Di Liegro sul reinserimento di alcuni ex terroristi

Carcere come punizione o come mezzo per reintegrarsi nella società? Un mezzo di riabilitazione o un modo per marchiare coloro che hanno sbagliato? Infine è realmente possibile perdonare tutti? Su queste cose abbiamo ascoltato Mons. Luigi Di Liegro, direttore della Caritas diocesana.

All’interno della Caritas operano numerosi detenuti politici, di chi è stata la scelta?

La richiesta ci è venuta da più parti. Innanzitutto da loro, poi dal carcere e da tutti gli operatori che lavorano all’interno di queste strutture. Vorrei precisare però che questa è una legge che vale non solo per i detenuti politici.

Cioè?

La legge stabilisce che, una volta scontata parte della pena, se ci sono i requisiti richiesti, la buona condotta ad esempio, lo stato consente di scontare la pena lavorando all’interno di strutture al di fuori del carcere.

Praticamente che cosa avviene?

Il detenuto al mattino si reca a lavorare e poi rientra alla sera in carcere. è questo un mezzo per reinserire la persona nella società.

Se il lavoro è un mezzo per la risocializzazione del detenuto, che senso ha per degli uomini che non sono mai stati degli emarginati, come gli ex-terroristi?

In questo momento però sono degli emarginati. Perché ci interessiamo alla detenzione politica? Perché molti di loro nel compiere atti eversivi erano spinti da motivazioni inquinate da vera e propria violenza ma che presentavano radici ideali su cui abbiamo stabilito un dialogo, una riflessione, che mira a staccarli da certe forme di estremismo per condurli ad un cammino di non violenza, di collaborazione, di condivisione dei problemi, soprattutto degli emarginati.

Lei crede nella loro buona fede?

Molti di loro avevano altre opportunità di lavoro. Se hanno scelto di lavorare nella Caritas e in altre associazioni che operano nel campo dell’emarginazione, lo hanno fatto perché sembrava più congeniale alla loro volontà di stabilire un rapporto costruttivo con la con la società. L’esempio più noto è quello di Renato Curcio che intrattiene un rapporto epistolare dal carcere e si occupa delle fasce sociali emarginate.

Ma chi lavora fuori dal carcere è un dissociato?

Lo deve essere altrimenti non avrebbe potuto usufruire delle condizioni previste dalla legge.

Che pensa dell’atteggiamento contrario dei familiari di alcune vittime?

è un atteggiamento comprensibile, condiviso da molti uomini politici, ma è un atteggiamento che chiude tutte le porte a questi detenuti. Non dà loro la possibilità di riconciliarsi e quindi di fare una nuova vita, che è il diritto di ogni uomo. Ma un atteggiamento di clemenza non significa offesa dei diritti dei parenti delle vittime. Dio perdona e l’uomo può perdonare anche lui. Non possiamo respingere nessuno perché ha sbagliato. Se è garantito che la pericolosità non esiste più nessuno ha il diritto di mantenere il detenuto in un luogo che non è naturale.

E come si fa a stabilirlo?

Ovviamente non si può essere sicuri al 100%, ma gli educatori, gli assistenti sociali, gli psicologici che seguono il detenuto nel suo cammino di riabilitazione hanno in mano gli elementi per dirlo. A questo punto si deve provvedere al rispetto del diritto del detenuto, diritto riconosciuto dalla stessa legge positiva, di essere restituiti alla società.

Può essere possibile una conversione ed un reinserimento anche per importanti detenuti mafiosi?

Non possiamo assumere atteggiamenti dogmatici. Certi uomini siamo abituati a definirli bestie per i loro crimini efferati, ma di fronte a Dio rimangono degli uomini. Sappiamo che l’uomo può cambiare e tutti dobbiamo sentirci responsabili di questo cambiamento, senza preclusione e senza distinzioni. L’uomo, anche se ha sbagliato, rimane sempre immagine e somiglianza di Dio.

5 aprile 1992