Dai giovani l’invito a «fare sul serio il gioco della vita»

Al Divino Amore il Convegno ecumenico delle diocesi del Lazio, sul tema “Giovani generazioni, fragilità, sogni e attese nel tempo della guerra e della pandemia». Gnavi: «Incontro reciproco»

Fornire alcune chiavi ermeneutiche per comprendere la complessità del momento presente e suggerire  piste sinergiche di collaborazione,  in grado di offrire contenuti di speranza. Questo l’obiettivo dichiarato del Convegno delle diocesi del Lazio, promosso dalla Commissione Cel per l’ecumenismo e il dialogo, che si sta svolgendo nella giornata odierna, 28 aprile, al Santuario del Divino Amore. Ad aprire i lavori della mattinata, l’incaricato diocesano Marco Gnavi, che riprendendo il tema-guida scelto  – “Giovani generazioni, fragilità, sogni e attese nel tempo della guerra e della pandemia” -, ha parlato di «un incontro reciproco sul mondo giovanile».

Anche il vescovo di Frosinone Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione Cel per l’ecumenismo e il dialogo, nel suo saluto iniziale ha sottolineato «la bellezza di un momento come questo, fatto per ragionare insieme proprio oggi, in un momento in cui è difficile mettere insieme le diversità», affrontando «un tema che riguarda tutti noi: le nuove generazioni, che sono non solo il futuro ma anche il presente e vanno valorizzati, rendendoli protagonisti del bene». Ancora, Spreafico guardando ai giovani d’oggi ha richiamato la figura biblica di Giuseppe, «esempio di un piccolo e fragile che è  stato guidato nella sua vita  dal sogno», ossia «dall’idea che il mondo può cambiare».

Alla psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva Stefania Andreoli è stata affidata la relazione principale della giornata. L’esperta ha dapprima constatato che «il momento presente, segnato dalla pandemia e ora anche dalla guerra, non ha in sé  concorso a un peggioramento delle condizioni psichiche dei giovani» ma «ne ha solo slatentizzato l’evidenza», a dire che «i giovani stavano già  male». In particolare Andreoli ha sottolineato come «i preadolescenti da circa una decina di anni a questa parte, complici una serie di fattori psicologici, sociologici, antropologici e psicologici, salutano sempre più precocemente l’infanzia e debuttano nella pubertà» ma «risultano  poco compresi» da un «mondo degli adulti impreparato, perché nel frattempo la vita si è fatta più  difficile per tutti».

Nonostante gli adulti per primi «stiano perdendo la speranza – ha continuato Andreoli -, sbaglieremmo a pensare che, anche se non ci  si poteva non aspettare che la crisi degli adulti non avesse ricadute sui più  giovani, i ragazzi siano in difficoltà perché  intorno hanno cattivi genitori o insegnanti», che invece «sono figure di cui le politiche non si sono mai davvero impegnate a prendersi cura,  facendosene carico». Da qui la considerazione di Andreoli: «Mentre noi adulti  abbiano erroneamente pensato che i nostri figli e i nostri studenti ci volessero esperti cattedratici o oracoli infallibili», loro in realtà «ci avevano già visto sdrucciolare e avere un passo incerto» eppure «non smettono di cercarci malgrado i nostri limiti perché siamo le persone con cui condividono il tentativo di diventare  grandi». Quindi la conclusione: i più  giovani «chiedono che si smetta di fare finta e si inizi a fare sul serio il gioco della vita». Infine Andreoli ha evidenziato come oggi un giovane «desidera primariamente che noi adulti prendiamo la sua domanda sul serio, riconoscendolo un interlocutore attendibile», perché «l’unica cosa che si aspetta che facciamo è ascoltare le sue richieste», per «rispondergli poi in modo personalizzato».

Prima della pausa pranzo, spazio alla tavola rotonda moderata dalla giornalista di Tv2000 Cristiana Caricato, che ha visto in primo luogo l’intervento di Paolo Naso, docente di Scienza politica alla Sapienza, dove coordina anche il master in Religioni e mediazione culturale. Riferendo dei risultati  di una ricerca condotta tra i giovani evangelici italiani, centrata sull’immigrazione e sulle dinamiche interculturali che i più giovani vivono all’interno di comunità  integrate, Naso ha affermato che «i millenial evangelici appaiono orientati verso una più intensa ricerca spirituale» ma anche che «la loro spiritualità, e in qualche  caso la loro fede, si esprime in termini liberi, talvolta antidogmatici e tendenzialmente aperti ad altre tradizioni culturali e teologiche. Una sorta di fede in un “Dio a modo mio”». Anche Atanasie di Bogdania, vescovo vicario della diocesi ortodossa romena d’Italia, ha riflettuto sulla trasmissione della fede alle nuove generazioni – definendolo «un viaggio alla scoperta di sé» – a partire dalla constatazione che «c’è nei giovani il desiderio di conoscere, dal quale si evince un ruolo importante del maestro». Genitori e insegnanti, tuttavia, «possono e devono  riconoscersi  anche fragili – ha sottolineato il rabbino Benedetto José Carucci Viterbi, preside delle scuole medie inferiori e superiori della Comunità ebraica di Roma -. La fragilità  infatti non è  una condizione unicamente dei giovani ma di ognuno, anche degli adulti, che possono utilizzare questo “terreno comune” per entrare in dialogo con i ragazzi».

Sempre sul tema della fragilità ha offerto una chiave di lettura Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, che, definendo  la guerra in Ucraina «il riemergere dell’orrore», ha affermato che «insieme alla pandemia questo conflitto rappresenta un cambiamento che mette sotto pressione i giovani, chiamati a essere protagonisti di una nuova società». Secondo Rosario Salamone, direttore dell’Ufficio scuola del Vicariato, a questi giovani «bisogna insegnare a porsi le grandi domande» perché «è questo il compito della relazione tra giovani e adulti». Per farlo, «occorre insegnare ai giovani  a vivere spazi di deserto e di silenzio, che non isolano ma, paradossalmente, ci insegnano la gioia autentica dell’incontro», ha concluso Salamone.

28 aprile 2022