Da Nanni Moretti un film-carezza epitaffio del Novecento

“Il sol dell’avvenire”, canto delicato di un mondo che non c’è più. La scelta della condivisione con alcuni studenti delle superiori, estranei a quel tempo, e anche al racconto del regista

Ho visto l’ultimo film di Nanni Moretti, come tutti. Mi è piaciuto così tanto che ho proposto ad alcune mie studentesse e studenti del quinto anno di andarlo a vedere autonomamente. Quando sono uscito dalla sala, mi sono ritrovato affratellato con tante e tanti nel piacere di un canto delicato di un Novecento che non c’è più, nell’ammissione senza sensi di colpa che certe nuove estetiche, quelle delle scene «adrenaliniche» e delle trame WTF Netflix che funzionano in «centonovanta Paesi», celino nel fondo il rimpianto per quello che ci hanno tolto, l’avevo sentita tutta, insomma quella nostalgia di un senso delle idee che farà sì sorridere per tutti i tic personali e ideologici di cui è stato foriero, ma che un tempo sapeva portarti per strada, magari in un corteo solare ai fori imperiali nel quale tutti ci siamo ritrovati. Ma proprio per questo ho preteso la prova della mia classe, per capire, per verificare la reazione degli estranei a quel tempo.

Perché ecco, appena ho proposto alle mie studentesse e ai miei studenti di andare a vedere il film, ancora prima del loro responso di cui dirò, mi sono reso conto del gigantesco “ma” che ha iniziato a tintinnarmi in testa, fin dalla prima visione de Il sol dell’avvenire, ovvero che questo è un film epitaffio – che più dolce non si può – di chi come me in fondo si sente da sempre un esodato del Novecento che non c’è più. E non è un caso, mi pare, che i giovani quelli veri, quelli che ho in classe, nel film proprio non esistano, neanche come macchiette da guardare con gli occhi sgranati di Moretti, che evidentemente i due giovani innamorati siano proiezione di quel passato fatto di cinema in velluto e Fiat 126, che addirittura la figlia del protagonista Giovanni – che giovane non lo è più tanto nemmeno lei – voglia sposare in modo più che simbolico un vecchio ridicolo ma figlio comunque di quel Novecento.

Insomma, nel film di Moretti c’è il rimpianto liberatorio per un mondo che c’è tanto piaciuto e che, diciamolo, in fondo continuiamo a reputare assai migliore di quello che obtorto collo abbiamo imparato ad accettare, forti del nostro onesto abbonamento Netflix, della nostra salomonica apertura ai troppi «muori bastardo» di turno, della rassegnazione indolente ai cortei che sono diventati pomeriggi spiaggiati sui social in divano ad azzuffarci su armocromie varie. Che il prezzo di tale onesto tempo (della durata del film) sia la sospensione del presente, la rimozione di questo presente, di questi giovani, mi sembrerebbe più che lecito.

In classe, quei pochi che poi il film l’hanno visto – cito testualmente con testimoni – mi hanno detto che gli è piaciuto «abbastanza», che «non l’ho proprio capito», che «mi ha irritato perché troppo boomer», che «ma chi si crede di essere per giudicare Netflix». Parole prevedibilissime. Certo, abbiamo anche concordato sulla bellezza di certe scene nelle quali prevale il senso della vita su quello della morte, sul sapersi ridire vivi nonostante Calvino, ma insomma, la prova della classe m’ha detto che quel film è, ed in fondo è giusto che sia anche così, un film-carezza per chi non ha un 2 iniziale nell’anno della propria nascita, una carezza dolce ma come si carezzano gli anziani.

4 maggio 2023