Criminalità giovanile: «La legge da sola non basta»

A poche ore di distanza dall’approvazione del “decreto Caivano”, parla il cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo, don Nicolò Ceccolini. «Io non sono contro le regole ma non sono queste a salvare». Il reato, «grido che mette in luce un disagio»

«La legge da sola non basta, bisogna cercare una relazione con questi ragazzi». Don Nicolò Ceccolini accoglie tutti i giorni i racconti dei circa 40 ragazzi ospiti nel carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma. La prima volta che ha messo piede lì dentro era il 2011 e aveva la stessa età dei cosiddetti giovani adulti, cioè di chi in quelle mura stava scontando la pena per un reato commesso da minorenne. Oggi don Nicolò di anni ne ha 36 e dal 2017 ha preso il posto di don Gaetano, lo storico cappellano di Casal del Marmo. «Quello che sono oggi lo devo a quei ragazzi», confessa al telefono, a qualche ora di distanza dall’approvazione del “decreto Caivano“: il pacchetto di norme voluto dal governo per contrastare il disagio e la criminalità giovanile.

Il testo introduce misure come il daspo urbano e l’avviso del questore per chi ha compiuto 14 anni, con sanzioni anche per i genitori. Questi ultimi rischiano fino a 2 anni di carcere se il figlio non frequenta la scuola dell’obbligo. Tra gli altri interventi, inoltre, la possibilità che il giudice possa vietare l’uso del cellulare se il minore di 14 anni è stato condannato – anche in via non definitiva – per delitti contro la persona. Una stretta repressiva più che educativa, che arriva a qualche settimana dai fatti di cronaca di Palermo e Caivano, che hanno visto come protagonisti proprio dei giovani.

«Io non sono contro le regole: i ragazzi arrivano in carcere perché le regole non le hanno avute – commenta don Nicolò -. Ma a volte misure troppo rigide non producono gli effetti sperati, perché non sono le regole a salvare ma è un incontro significativo che può cambiare la vita». Seppure i percorsi, le scelte e i reati commessi siano diversi, c’è qualcosa che lega chi passa dal carcere minorile. È la carenza di spazi di ascolto e la mancanza di figure adulte da seguire e sulle quali modellare la propria identità in una fase della vita, quella dell’adolescenza, in cui c’è bisogno di tronchi robusti a cui aggrapparsi per non cadere al primo ostacolo. «Si parla di disagio giovanile, ma sarebbe interessante parlare del disagio degli adulti», osserva don Nicolò: «Parlando con i ragazzi spesso emerge la mancanza di figure di riferimento che non hanno saputo accompagnarli». Il più delle volte si tratta del padre, perché «è in carcere oppure non lo hanno mai conosciuto», spiega il cappellano.

Ecco che la prospettiva si inverte e il reato diventa la punta dell’iceberg di condizioni di vita che non sono stati i ragazzi a scegliere per loro stessi. «Il reato è un grido che mette in luce un disagio», spiega don Nicolò. Eppure a gridare a Palermo, come a Caivano, non sono stati i ragazzi che hanno deliberatamente esercitato la forza su corpi di giovani donne (in un caso poco più che bambine) non consenzienti. «Dobbiamo sforzarci di non identificare nessuno con il reato che ha commesso», dice il cappellano di Casal del Marmo. Al telefono le sue parole si attorcigliano: «Questo purtroppo è un indice puntato verso noi adulti, perché questi ragazzi sono il frutto di una società fondata sull’individualismo e sull’edonismo e concepiscono i rapporti in modo puramente utilitaristico». È difficile vedere del bene in tutto quel male, ma don Nicolò è abituato ad accogliere senza giudicare: «Bisogna essere in grado di vedere che c’è un valore in ciascuno oltre quella coltre di nero».

Sollevare il drappo che questi ragazzi si portano addosso non è semplice. Persino il mondo carcerario, nonostante la sua funzione rieducativa, spesso diventa un luogo in cui il tempo resta sospeso. «Spesso all’interno degli istituti manca un progetto globale che vada al di là delle mura carcerarie», dice don Nicolò. A Casal del Marmo c’è chi segue il corso da parrucchieri, chi quello di giardinaggio e chi, invece, frequenta il pastificio nato nel 2013 su impulso di Papa Francesco. Tante volte però «le attività rischiano di nascere e morire all’interno del carcere senza una prospettiva che guardi oltre», dice il cappellano invitando ad ascoltare le fragilità di chi sbaglia. «Questi ragazzi che chiedono di confidarsi, di trovare una parola amica». È quello che la vita non ha mai concesso loro: «Qui dentro la sofferenza la tocchi, il dolore lo senti e questo non ti lascia indifferente».

8 settembre 2023