Covid-19, un anno dopo il “paziente 1”

Massimo Antonelli, direttore della Terapia intensiva del Gemelli e membro del Comitato tecnico-scientifico: «Ancora necessarie misure di mitigazione nazionali e interventi nelle aree più a rischio». La "pancia" del Paese va ascoltata ma ignorare la realtà non aiuterà a risolverla»

Istituita per ricordare l’impegno dei professionisti sanitari, socio-sanitari, socio-assistenziali e del volontariato, si è celebrata sabato, 20 febbraio, la prima Giornata nazionale dei “camici bianchi”. La data scelta non è casuale: il 20 febbraio di un anno fa, infatti, con la diagnosi al cosiddetto “paziente 1” di Codogno dell’infezione da Covid-19, il coronavirus entrava di fatto nel nostro Paese, «colpendolo per primo, dopo la diffusione in Cina, e trovandoci impreparati per contrastarlo». A ricordarlo è Massimo Antonelli, direttore dell’Unità operativa complessa di anestesia, rianimazione e terapia intensiva al Policlinico Universitario Agostino Gemelli e membro del Comitato tecnico-scientifico che affianca il governo in questa fase di emergenza sanitaria, oltre che ordinario di Anestesiologia e Rianimazione all’Università Cattolica. Lo abbiamo raggiunto per commentare l’ultimo monitoraggio settimanale del Cts, diffuso venerdì pomeriggio, 19 febbraio.

Professore, qual è la situazione attuale?
I dati analizzati ci dicono che l’incidenza a livello nazionale è in lieve aumento e l’Rt medio calcolato sui casi sintomatici è stato pari a 0,99, con un range tra lo 0,95 e l’1,07, in crescita rispetto ai 7 giorni precedenti e con un limite superiore che comprende l’uno. Questo significa che il virus circola e che sono ancora necessarie misure di mitigazione nazionali e puntuali interventi di contenimento nelle aree a maggiore diffusione, anche alla luce della conferma della circolazione di alcune varianti virali a maggiore trasmissibilità. L’incidenza nazionale è infatti ancora lontana da quei livelli – fissati a 50 per 100mila – che permetterebbero il completo ripristino sull’intero territorio nazionale dell’identificazione dei casi e il tracciamento dei loro contatti.

Le varianti hanno quindi un’incidenza significativa. Quanto ci devono preoccupare?
Le varianti sono il modo in cui un virus si esprime, si tratta cioè di qualcosa che appartiene al suo programma genetico. Ciò che è importante comprendere è che più un virus si moltiplica, più si verificano sue mutazioni, per questo il virus va contenuto. Nel caso specifico del Sars Cov 2 a mutare è la proteina S, che serve da chiave di combinazione con i nostri recettori per riuscire ad entrare nelle nostre cellule. Allo stato attuale, la variante inglese comporta una maggiore trasmissibilità del virus, con un incremento del 30% di contagiosità, ed è probabile che diventerà prevalente sulle altre, ad esempio quella sudafricana o quella brasiliana, e potrebbe essere l’unica, un domani.

Alcune regioni appaiono più interessate dalla circolazione delle varianti e vedono per questo la necessità della creazione di aree rosse ad hoc. È corretto?
Sì. Gli ultimi dati ci dicono che le varianti circolano di più in alcune regioni, come l’Umbria e l’Abruzzo, dove si registra una conseguente pressione sugli ospedali e la necessità di ricoverare i pazienti nelle strutture sanitarie di altre regioni. A fronte, quindi, di un dato nazionale che parla di un tasso di occupazione in terapia intensiva sotto la soglia critica del 30% – che ci rende relativamente sereni in vista di eventuali nuove ondate – e, complessivamente, del numero di persone ricoverate in aree mediche in lieve diminuzione, ci sono forti variazioni interregionali, con alcune regioni dove il numero assoluto dei ricoverati in area critica, e il relativo impatto, impongono misure restrittive.

Si profila all’orizzonte un nuovo lockdown?
Come comitato tecnico-scientifico continuiamo a invitare i governatori e gli amministratori locali a realizzare una continua analisi del rischio a livello sub-regionale perché è necessario mantenere e rafforzare le misure di mitigazione in base al livello di rischio identificato. Oltre all’Umbria, che ha un livello di rischio alto, sono 12 le regioni o province autonome con una classificazione di rischio moderato – di cui 6 ad alta probabilità di progressione a rischio alto nelle prossime settimane – e 8 quelle con rischio basso. Ancora, 10 hanno un Rt puntuale maggiore di 1. Siamo tutti stanchi, lo capisco bene, delle misure restrittive che nell’ultimo anno hanno avuto un impatto devastante sulla nostra vita sociale ed è indubbio che abbiano generato problemi di natura economica a tante attività. La “pancia” del Paese va ascoltata e considerata e rispetto a ciò il governo ha un compito delicato e importante ma va sottolineato che questa è la realtà effettiva e non considerarla o ignorarla non aiuterà affatto a risolverla. Un nuovo rapido aumento nel numero di casi potrebbe portare velocemente ad un sovraccarico dei servizi sanitari, in quanto si inserirebbe in un contesto in cui l’incidenza di base è ancora molto elevata.

Il vaccino ci dà però una speranza per un graduale ritorno alla normalità, vero?
Essere tempestivi nella somministrazione del vaccino a livello nazionale è fondamentale perché consentirà il superamento stabile delle misure di contenimento. Questo, però, sarà possibile solo dopo una vaccinazione di massa, che difficilmente si avrà prima della fine del 2021, temo. Vuol dire che il vaccino, per ora, non è un “liberi tutti”. È importante infatti continuare ad osservare le tre regole di base – distanziamento sociale, lavaggio frequente delle mani e uso della mascherina – anche dopo essere stati vaccinati, non limitandosi a pensare unicamente a se stessi ma guardando alla collettività, tutelando gli altri. Noi come medici del Gemelli siamo stati tutti vaccinati, anche per quanto riguarda il richiamo, ma tra di noi continuiamo a mantenere la distanza di sicurezza, indossando sempre le mascherine, oltre ad adottare tutte le necessarie accortezze quando visitiamo i pazienti. Personalmente, ho riabbracciato solo dopo il vaccino mio figlio, che non abbracciavo dallo scorso marzo, per dire che tutti dobbiamo pensare non solo a proteggerci ma anche a proteggere gli altri, specie perché non è ancora chiaro né comprovato da evidenze scientifiche se chi è stato vaccinato possa essere comunque veicolo di trasmissione del virus.

Ha sottolineato come sia importante agire tempestivamente nella somministrazione del vaccino. Ci sono, invece, ritardi e difficoltà nelle vaccinazioni e la stessa presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha ammesso che il problema della produzione dei vaccini è stato sottovalutato.
Primariamente, voglio sottolineare lo sforzo e il merito da riconoscere ai ricercatori che, grazie alle nuove tecnologie, hanno prodotto il vaccino a RNA in tempi davvero brevi. È indubbio poi che si tratta necessariamente di un’organizzazione complessa da realizzare, essendo questa la prima vaccinazione di massa a livello mondiale. Le difficoltà attuali dipendono da una questione pratica e concreta, ossia l’effettiva disponibilità o meno dei vaccini in ragione della produzione degli stessi. Questi limiti produttivi causano dei rallentamenti nell’organizzazione dei diversi Paesi. In Italia, a oggi, sono state somministrate oltre il 90% delle dosi di vaccini disponibili, con 3 milioni e 400mila persone vaccinate. Le criticità nell’approvvigionamento, tuttavia, non giustificano, a mio avviso, certe azioni in autonomia delle regioni, che generano dei dubbi anche da un punto di vista etico. Esiste un contratto europeo in merito al vaccino per il Covid-19 ed è giusto e corretto che come parte dell’Unione europea i diversi Paesi lo rispettino.

Dal panorama europeo ritorno alla dimensione nazionale. Il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso programmatico pronunciato alla Camera nei giorni scorsi ha parlato di una sanità puntata sul territorio, con più servizi di base.
La medicina del territorio è il primo importante baluardo della salute pubblica e questa pandemia ha ampiamente mostrato come sia fondamentale che esista una rete territoriale efficiente. La figura del medico di base, o medico condotto, è importantissima perché è la prima che si interfaccia con il paziente, avendo notizia della situazione familiare completa del malato. È normale che all’inizio dell’emergenza sanitaria, essendo poche le conoscenze sul coronavirus e tante le incertezze, i medici di base e i pediatri abbiano mandato i pazienti in cura al Pronto soccorso invece che curarli a casa ma ad oggi si rivela essenziale il loro ruolo e importante il contributo che possono apportare al settore della salute pubblica, pensando alla pressione che i malati di Covid-19 hanno necessariamente esercitato sulle strutture ospedaliere nei primi mesi della pandemia.

Primi mesi nei quali tanti sono stati i decessi, che ancora, pur in calo, risultano significativi. Il bollettino diffuso dalla Protezione Civile ieri sera, 21 febbraio, registrava 232 nuovi morti, per un totale di 95.718 vittime dall’inizio dell’emergenza sanitaria.
Su questo non è possibile offrire oggi una risposta chiara e inoppugnabile perché si tratta di un fenomeno altamente complesso. Per pervenire a delle risposte sui tanti decessi sarà necessario analizzare a fondo le cartelle cliniche dei pazienti deceduti. Si possono per ora avanzare delle ipotesi a partire dalla constatazione che l’Italia è il secondo Paese più longevo al mondo dopo il Giappone. Grazie al nostro Servizio sanitario nazionale le persone vivono dunque più a lungo e raggiungono soglie di età avanzate ma allo stesso tempo convivono con diverse patologie, come ad esempio quelle oncologiche e autoimmunitarie o il diabete. Rispetto a queste patologie, l’impatto di un elemento perturbante come un virus è sicuramente potente e va quindi analizzato il suo reale ruolo sulla mortalità di soggetti con polipatologie. Un altro elemento che si può fornire è che l’età mediana rispetto alla mortalità legata al Sars Cov 2 è superiore agli 80 anni, in pazienti già affetti, appunto, da polipatologie, e quindi con situazioni di salute compromesse.

22 febbraio 2021