Covid-19, «l’odissea per un tampone a Roma se sei fuorisede»

Il racconto della trafila burocratica per poter ottenere la ricetta e per fare il test. Tra lunghe file al drive-in e poca chiarezza nelle procedure da seguire

Il termometro, inclemente, segnava 37 e 5. Il dato, unito alla tosse e al raffreddore, non lasciava scelta se non quella di fare un tampone per accertare che il Covid 19 non c’entrasse nulla con i miei sintomi. Ma da fuori sede e senza residenza a Roma, la trafila si è rivelata più lunga di quello che ci si potrebbe aspettare.

Dopo gli ultimi dati sull’aumento dei contagi la situazione nella Capitale si è fatta più complicata. Entrare alla Asl del primo municipio con la febbre era un’utopia e sapevo, tramite i racconti di alcuni amici, che non avrei potuto fare il tampone al drive-in di qualche presidio ospedaliero senza prescrizione. Chiamare il mio medico di base è stato abbastanza inutile per due motivi: innanzitutto mi ha spiegato che avrebbe compiuto un abuso firmando un’impegnativa per una provincia al di fuori della propria area di competenza. In secondo luogo, il protocollo prevede un iter preciso: il dottore segnala al Sisp (Servizio igiene e sanità pubblica) l’esigenza di effettuare un tampone ed è poi compito dell’Istituto convocare il paziente per sottoporsi al test. Avrei dovuto aspettare più di qualche giorno prima di poter fare il tampone, con il rischio, in caso di un esito positivo, di aver contagiato amici e colleghi.

Come seconda opzione c’era il numero verde: il telefono ha squillato a vuoto dalle 10 e 30 del mattino fino alle 18, quando una voce metallica mi ha informato che il servizio sarebbe rimasto inattivo fino al giorno dopo. Da qui una lunga serie di altre telefonate in diversi ospedali romani; un signore del centralino del Policlinico Gemelli mi ha consigliato di andare alla Asl per farmi firmare la ricetta necessaria per fare il tampone. Così, la mattina seguente, raggiungo la sede dell’azienda sanitaria in via delle Vittorie. Ad accogliermi, una decina di persone in fila sotto la pioggia. Qualche anziano aggrappato al bastone e bambini accompagnati dai genitori. All’ingresso un’addetta fa entrare solo le persone munite di mascherina fp2; ci vuole poco prima che gli animi si scaldino. Complice il meteo inclemente, in pochi minuti si forma quasi una ressa, altro che distanziamento.

Al mio turno, dopo essere stata catechizzata sul fatto che «il tampone si fa al drive in» (come se non avessi già tentato quella strada), riesco a spiegare la mia situazione e vengo indirizzata all’ospedale Cristo Re, dove «sicuramente sono già operativi i test rapidi», chiaramente a pagamento. Corro verso la meta, per quanto il traffico congestionato mi consenta di farlo, e, fiduciosa di aver finalmente risolto (con soli 22 euro!), mi metto diligentemente in fila in attesa di poter prendere il numeretto. Sembrava troppo facile, infatti, puntualmente, vengo di nuovo rimbalzata perché «per poter fare il test ci si può prenotare solo dalle 8 e alle 10. Torna domattina». Scoraggiata, penso che la ritirata sia l’unica strategia possibile. Poi l’illuminazione e la fortuna di trovare qualcuno in grado di fornire, con gentilezza (cosa non scontata), un’indicazione precisa e finalmente risolutiva.

Vado al Pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito e spiego per l’ennesima volta la mia situazione: «Ho la febbre, non alta, tosse e raffreddore, dovrei fare il tampone ma non sono residente a Roma». Una guardia giurata mi dice che una possibilità di venirne a capo c’è: «Chiama la guardia medica, ti farà la ricetta con cui poter accedere al drive-in». Non era difficile, uno dei 10 centralisti degli altrettanti numeri verdi poteva spiegarmelo. Potevano farlo alle Asl. Evidentemente il momento è destabilizzante e caotico per tutti e in pochi hanno chiare le procedure. Fatto sta che contatto una guardia medica e poco dopo mi arriva per mail un’impegnativa per fare il tanto agognato test.

Mi metto di nuovo in movimento, destinazione drive-in dell’ospedale Santa Maria della Pietà. Fila in auto di due ore. Dallo specchietto retrovisore sbircio le persone nelle auto. In molti sono soli, nessuno li accompagna. Vedo una coppia di anziani nella vettura dietro la mia; immagino sia ancora più difficile per loro, muoversi come lumache in quel labirinto di frecce e segnaletiche. Finalmente tocca a me. Fornisco i dati necessari per il referto, mostro la ricetta e venti secondi dopo (tanto ci vuole per effettuare un tampone) posso finalmente dichiarare finita la mia personale odissea da Covid-19. In attesa di conoscere il verdetto (24-48 ore il tempo stimato per una risposta), posso solo testimoniare che tra la tanto sbandierata esigenza di tracciare i contagi e l’applicazione pratica di questo principio c’è un mare tempestoso e difficilmente navigabile di burocrazia. Almeno per chi ha la sfortuna di trovarsi in una città in cui non risiede. (Chiara Capuani)

22 ottobre 2020