«Corruptio optimi pessima»
La battaglia contro la corruzione , sfida «culturale» non solo per il Sud del mondo ma anche per il Nord. Le responsabilità delle ex potenze coloniali e dei “predatori” di oggi
Quando si parla dell’Africa qui da noi si tende sempre a stigmatizzare le negligenze delle classi dirigenti. Proviamo però a capire come stanno effettivamente le cose. «La corruzione prevede sempre due complici: colui che intasca il denaro (inteso come soggetto richiedente sul mercato dell’illecito) e colui che lo consegna (il cosiddetto offerente)», nota John Christensen, fondatore di Tax Justice Network, il quale sollevò già alcuni anni or sono alcune obiezioni rispetto a una visione manichea del problema per cui vengono sempre assolte quelle nazioni dove risiede il cosiddetto potere economico-finanziario. E sì, perché se il computo delle ruberie integrasse non solo la «domanda», ma «anche la dimensione dell’offerta», la graduatoria dei Paesi con un alto indice di corruzione sarebbe assai diversa da quella che viene pubblicata sui giornali e vedrebbe in testa – sostiene Christensen – Paesi con alti standard di democrazia come quelli occidentali. Dunque, lungi da ogni retorica, la battaglia contro la corruzione deve farsi «culturale» e «civilizzatrice» a Nord e a Sud del mondo, in ogni sfera del corpo sociale. Indubbiamente, solo una maggiore partecipazione dei cittadini alla gestione dello Stato e al controllo dell’uso delle risorse pubbliche potrà ridare loro fiducia nelle istituzioni che ad oggi garantiscono, con sfumature e valenze diverse, ben pochi spazi di vera trasparenza.
Alla fine degli anni Settanta, l’africanista Marie-France Mottin azzardava una conclusione sulla geopolitica del continente sulla quale varrebbe la pena riflettere: «Perché non ammettere che la responsabilità del fallimento è collettiva, e avviare finalmente un vero dialogo, in un linguaggio libero dagli interessi, dalle ideologie e dai rancori?». Chissà, se forse un giorno sapremo accettare questa provocazione l’Africa smetterà d’essere il cimitero delle astrazioni e disillusioni collettive che affliggono quella che il missionario san Daniele Comboni chiamava «l’infelice Nigrizia». Il grande intellettuale beninese Albert Tévoédjrè, in un suo celebre libro dal titolo più che emblematico, “Povertà, ricchezza dei popoli”, auspicava leader africani davvero illuminati, capaci d’essere «prima di tutto dei dirigenti della vita sociale», servitori della Res publica. E come in una sorta di gioco degli specchi, le risposte opposte alla sfida dello sviluppo sembrano eludere il problema dello «Stato-Nazione», così come venne postulato da Davidson, vale a dire una forma istituzionale di imitazione occidentale che si traduce in governi personali e autocratici fondati sul nepotismo e la corruzione esercitati a favore di una o più componenti etniche della popolazione contro le altre.
A questo riguardo Davidson, che è stato senza ombra di dubbio uno dei maggiori africanisti del Novecento, criticò le pesanti responsabilità delle ex potenze coloniali nella captazione di élite autoctone che si prestano impunemente al mantenimento di rapporti economici ineguali, seppure informali. L’analisi di alcuni scenari infuocati, in cui la conflittualità non ha solo una valenza politico-istituzionale ma anche militare, mette in luce l’esistenza di circuiti politici legati a istituzioni, eserciti e milizie private, signori della guerra locali, compagnie multinazionali, finalizzati allo sfruttamento delle risorse naturali presenti sul territorio e ovviamente del tutto indipendenti da qualsiasi forma di consenso o legittimazione popolare.
Anche se oggi l’azione predatoria è svolta anche da altri attori internazionali del calibro ad esempio di Russia, Cina e Turchia, la logica è sempre quella neocoloniale. L’ex governatore della Banca Centrale del Ghana Frimpong Ansah arrivò a definire gli Stati africani postcoloniali addirittura come «stati-vampiro», biasimando il drenaggio del denaro pubblico e delle risorse perpetrato dalle oligarchie locali secondo logiche clientelari e predatorie. Altri studiosi, come Jean-François Bayart, ritengono che questo processo degenerativo sia attribuibile all’incapacità distributiva delle risorse in direzione dello sviluppo e del benessere sociale a causa del perdurante asservimento a fazioni etniche incapaci di servire il bene pubblico. Una cosa è certa: la massima di Papa Gregorio Magno «Corruptio optimi pessima» («la corruzione dei migliori è la peggiore») continua a essere uno straordinario frammento di saggezza che conserva immutata nel tempo la sua carica profetica. Un’allocuzione che stigmatizza, con forza ed efficacia, le responsabilità di coloro che amministrano il potere e la ricchezza delle nazioni.
3 agosto 2023