Coronavirus, oltre 500mila casi nella Panamazzonia

Coinvolti quasi 170 popoli indigeni. Più di 15mila i morti. E il premier brasiliano bolsonaro mette il veto alle legge sulle misure di emergenza a loro dedicate

Nei nove Paesi della Panamazzonia ha superato il mezzo milione il numero di contagiati dalla pandemia di coronavirus, con un bilancio di 15.939 morti. Lo rende noto il bollettino diffuso tre volte alla settimana dalla Repam (Rete ecclesiale panamazzonica). Il maggior numero di casi è in territorio brasiliano, dove si contano 415.451 positivi e 13.115 morti. In numeri assoluti, le giurisdizioni più colpite sono l’arcidiocesi di Manaus (34.266 casi e 1.974 morti), la diocesi di Macapa (30.524 casi e 462 morti) e Belém (28.351 casi e 2.433 morti, con un’altissima percentuale di letalità). In termini di incidenza sulla popolazione però la realtà è drammatica anche in molte diocesi che si trovano all’interno della foresta.

coronivirus in amazzonia, covid-19, luglio 2020Il secondo Paese più colpito è il Perù, con 54.052 contagiati e 1.258 morti (concentrati soprattutto nei vicariati apostolici di Iquitos e Pucallpa); il terzo la Bolivia, con 32.554 contagiati e 1.224 deceduti, in gran parte nell’arcidiocesi di Santa Cruz de la Sierra, ma con numeri preoccupanti anche nei vicariati apostolici del Beni e di Pando. Seguono la Guyana francese (5.499 casi e 22 morti), l’Ecuador (4.659 e 150) la Colombia (4.219 e 119), il Venezuela (2.113 e un numero imprecisato di deceduti), il Suriname (634 e 15), la Guyana (284 e 16). Tra le popolazioni indigene che vivono nei loro territori ancestrali (non sono conteggiati coloro che abitano nelle città), nella Panamazzonia si registrano 14.653 casi confermati e 926 morti, di 168 etnie e popolazioni indigene.

Nel frattempo fa discutere, in Brasile, il veto apposto dal presidente Bolsonaro alle misure di emergenza proprio a sostegno delle popolazioni indigene coinvolte nella pandemia: un disegno di legge proposto dalla deputata Rosa Neide, che era stato approvato sia dalla Camera che dal Senato. Lo stop di Bolsonaro su 16 articoli, a detta del Cimi (Consiglio indigenista missionario, collegato alla Conferenza nazionale dei vescovi), ribadisce «il pregiudizio, l’odio e la violenza dell’attuale governo nei confronti delle popolazioni indigene, quilombole (afro, ndr) e delle popolazioni tradizionali». I veti di Bolsonaro, secondo il Cimi, «sono allarmanti, specialmente in tempi di pandemia, poiché negano i diritti fondamentali e le garanzie per la vita delle popolazioni tradizionali, come l’accesso all’acqua potabile, un bene universale dell’umanità. Oltre all’accesso all’acqua, è stato posto il veto ad altri articoli essenziali, che avrebbero garantito l’accesso ai letti di terapia intensiva, ai prodotti per l’igiene, alla distribuzione di cibo, tra gli altri, per la popolazione indigena».

Come giustificazione il presidente adduce ragioni di bilancio ma secondo la nota del Consiglio questa motivazione è contraddetta dalla recente approvazione della proposta di modifica della Costituzione (Pec) 10/2020 da parte del Congresso nazionale. Conosciuto come il “bilancio di guerra”, l’emendamento autorizza le spese necessarie per combattere la crisi generata dalla nuova pandemia di coronavirus. «Il presidente – si legge ancora nella nota – manca di rispetto al Congresso nazionale, ponendo il veto su una legge che è stata approvata quasi all’unanimità, anche dai partiti che lo appoggiano. Questa posizione presidenziale dimostra totale insensibilità alla situazione vulnerabile di migliaia di famiglie indigene, afro e delle comunità tradizionali su tutto il territorio nazionale, in pratica condannandole a morte nel mezzo di questa grave crisi».

9 luglio 2020