Coronavirus e variante indiana, Cauda: «Le misure di prevenzione sono sempre le stesse»

L'infettivologo del Gemelli, dopo il riscontro in Italia su due vicentini, raccomanda lavaggio delle mani, distanziamento - «che possiamo aumentare a 2 metri» - e mascherina. «La tutela maggiore è il vaccino ma perché la macchina delle vaccinazioni cammini serve la "benzina"»

Roberto Cauda, infettivologo al GemelliSono necessari maggiori studi scientifici sulla variante indiana del virus Covid-19 – scoperta per la prima volta ad ottobre nel Maharashtra, stato dell’India centro-occidentale con Capitale Mumbai, e riscontrata lunedì 26 aprile in Italia in due cittadini vicentini di origine indiana di rientro da un pellegrinaggio sul Gange – per essere in grado di «poter dire se abbia maggiore trasmissibilità rispetto alle altre già studiate o se provochi una malattia più grave». A oggi, infatti, «non abbiamo ancora dati sufficienti ma solo informazioni frammentarie e non complete». A sottolinearlo è Roberto Cauda, ordinario di Malattie infettive all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma.

Professore, quanto preoccupa questa nuova variante, specie alla luce dell’alto grado di diffusione registrato in India?
In realtà si tratta di due varianti: la B1617 e la B1618. La prima ha due mutazioni nello Spike 484 e 425, la seconda ha le stesse mutazioni più una terza, ovvero la D614G, per la prima volta osservata in Italia dal gruppo del professore Massimo Ciccozzi in uno studio al quale ho collaborato. In particolare, la mutazione 484 è la stessa mutazione presente nella variante brasiliana e in quella sudafricana: sono mutazioni che in qualche modo noi conosciamo ma che, per la frequenza con cui si sono verificate, e soprattutto per l’impatto che hanno avuto in India, rappresentano certamente un motivo ulteriore di preoccupazione. Tuttavia, va tenuto conto della realtà locale specifica indiana, delle condizioni di sovraffollamento che interessano quel Paese. In base a quanto abbiamo osservato finora con le altre varianti, da quella inglese a quelle sudafricana e brasiliana, possiamo dire che l’efficacia dei vaccini non viene assolutamente abolita. C’è poi una iniziale singola osservazione in Israele che sembra indicare che il vaccino Pfizer-Biontech sia in grado di contrastare questa variante indiana.

Quali accortezze ulteriori possiamo adottare per farvi fronte?
Le misure di prevenzione sono sempre le stesse ossia il lavaggio frequente delle mani, il distanziamento, che possiamo aumentare fino a 2 metri, e l’uso della mascherina, che va portata in modo corretto, non tenuta al collo o sotto il naso, abbassandola a piacimento magari perché si deve fumare.

Uno studio americano pubblicato da Jama, organo ufficiale dell’Associazione medica degli Stati Uniti, sostiene che usare una doppia mascherina – sovrapponendone una di tessuto a quella chirurgica – aumenta il livello di protezione. È davvero così?
Usare una doppia mascherina migliora l’efficienza di filtro non perché si aggiunga uno strato ma perché si migliora l’aderenza dei bordi del dispositivo al viso. Quello che conta, infatti, è l’aderenza facciale. Le mascherine chirurgiche garantiscono una sicurezza “in uscita”, cioè controllano l’eventuale passaggio del virus, ma è importante avere una maggiore cautela anche “in entrata”. La forma di tutela maggiore rimane però quella che viene garantita dal vaccino, per questo l’aspetto più importante è proseguire in modo spedito e sostenuto con la campagna vaccinale.

Come sta procedendo in questo l’Italia a suo parere?
In questo ultimo periodo c’è stato un cambio di passo ed è auspicabile che si continui in questo modo. A oggi, i dati ci dicono che sono 18 milioni le persone vaccinate con una dose e quasi 5 milioni coloro che hanno ricevuto entrambe le dosi. A questi numeri vanno aggiunti i soggetti malati e guariti dal Covid-19 e quelli che sono stati colpiti dal coronavirus e non sono stati riconosciuti, che sono quindi oggi protetti rispetto al virus. Se escludiamo Stati Uniti, Israele e la Gran Bretagna, che sono stati i migliori nella gestione delle vaccinazioni, guardando le percentuali di vaccinati ogni 100 abitanti, l’Italia tocca quasi il 30%, ugualmente a Paesi europei come Francia e Spagna. Per essere un Paese che non produce un proprio vaccino, ci stiamo comportando in linea con le altre realtà europee e se sono stati fatti degli errori non sono stati più di quelli commessi anche da altri. Certo, siamo ancora lontani dall’immunità di gregge o comunque dal traguardo del 50% della popolazione resa immune ma i modelli matematici ci parlano di questo punto di arrivo individuandolo entro la fine dell’estate o con l’inizio dell’autunno. Intanto il mese di maggio riteniamo che sarà significativo per comprendere, secondo i calcoli e i dati scientifici, se i rischi comportati dalle diverse riaperture siano realmente controbilanciati dai numeri raggiunti procedendo con le vaccinazioni.

A proposito delle riaperture che hanno interessato la maggior parte dell’Italia dallo scorso lunedì, lei ritiene si possa parlare di un rischio calcolato?
Sicuramente è stato un rischio ragionato, laddove ogni riapertura comporta rischi, è evidente, così come è chiaro che non si possa restare chiusi per sempre. A differenza di un anno fa, quando l’unica cosa che si poteva fare era tentare di mitigare la diffusione del virus, oggi abbiamo degli elementi e delle conoscenze in più, primo fra tutti il vaccino. È chiaro che più la campagna vaccinale procede spedita più diminuiscono i rischi, così come è vero che affinché la macchina della vaccinazione cammini serve la “benzina”, e quindi servono i vaccini stessi.

28 aprile 2021