Coronavirus, Cauda: «Il vaccino, frutto di studi messi in atto a metà degli anni ’90»

Per l'infettivologo del Gemelli serve una «alleanza tra mondo scientifico, stampa e media, per far passare messaggi corretti». A settembre 6 milioni di bambini non vaccinati: la prospettiva della terza dose. Intanto la ricerca va avanti anche sul fronte degli anticorpi monoclonali e dei farmaci

Roberto Cauda, infettivologo al GemelliL’ultimo bollettino della Protezione civile, diffuso ieri, 28 luglio, registra 5.696 nuovi contagi da Covid-19, con un aumento delle persone ricoverate con sintomi, che sono 1.685, di cui 183 in terapia intensiva, e 15 morti. Commentando questi dati, quando il tasso di positività è in aumento al 2,3% rispetto all’1,9% delle 24 ore precedenti, Roberto Cauda, ordinario di Malattie infettive all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, osserva che «dall’inizio della pandemia sono morte più di 128mila persone». In particolare il medico sottolinea che, stando ai dati del report periodico sui decessi dell’Istituto superiore di sanità relativo all’intervallo febbraio-luglio, «99 persone decedute su 100 non erano vaccinate o avevano ricevuto una sola dose del vaccino».

Professore, questo conferma l’importanza di sottoporsi alla vaccinazione completa. Sono diverse però, anche in questi ultimi giorni, le manifestazioni e le proteste dei cosiddetti no-vax, che sostengono di non voler fare da cavie e che non intendono farsi inoculare un farmaco rispetto al quale non nutrono fiducia.
Queste persone, non per colpa loro, dimenticano che gli studi rispetto a questo tipo di vaccino si basano sull’ingegneria genetica e vengono da lontano, quindi non nascono certo in questo momento. Il vaccino è il frutto di studi messi in atto a metà degli anni ’90, allora a livello sperimentale. Ma più vent’anni dopo, non è vero e non si può dire che dietro i risultati odierni non ci sia un’esperienza scientifica, anzi, ci sono evidenze consolidate. Semplicemente, a fronte della pandemia, c’è stata una accelerazione. Possiamo dire che la pandemia di Covid-19 è stata l’occasione per mettere in atto un progetto culturale e scientifico ampio, che non ha affatto trascurato i tempi e le fasi di sperimentazione. Oggi stiamo vivendo la quarta fase, con la somministrazione del farmaco a milioni e milioni di persone, laddove nel mondo ne sono state vaccinate 2 miliardi in poco più di 6 mesi.

Fornire dati comprovati dalla scienza può quindi essere utile per rassicurare, se non per convincere, coloro che sono esitanti nei confronti del vaccino?
Credo che serva una buona comunicazione per far passare dei messaggi scientificamente dimostrati e quindi serve una alleanza tra mondo scientifico e stampa e media in genere. Da parte mia, cerco sempre di scindere la mia personale opinione, che può essere fallace, da quella consolidata dalla ricerca scientifica, che tuttavia non è ovviamente infallibile. Ad esempio, studi recenti, come quello pubblicato sul New England journal of medicine, dimostrano come comparando il vaccino a rna, quale è il Pfizer, e quello a dna, cioè ad esempio Astrazeneca, non c’è una grande differenza sull’efficacia infatti entrambi mantengono una loro validità, se somministrati a ciclo completo, cioè con le due dosi. Se invece ci si ferma a una sola dose, l’efficacia risulta pari al 30% sulla variante Delta mentre l’efficacia di una sola dose saliva al 50% sulla variante Alfa. Questo pone una riflessione anche rispetto al Green pass, che in Italia viene riconosciuto anche a fronte di un ciclo vaccinale non completo.

Anche l’introduzione del Green pass ha generato e sta generando molte polemiche. È una misura utile ai fini del contenimento del virus?
Sicuramente non è la soluzione a tutti i problemi così come non possono esserlo il lockdown o il tentativo di mitigare la diffusione dei contagi con l’Italia divisa in zone a diversi colori. Si tratta di una misura transitoria che ha una funzione di protezione, specialmente per prevenire l’insostenibilità degli ospedali ad accogliere i contagiati che richiedano il ricovero. Il Green pass on è un’invenzione italiana, porta il simbolo dell’Unione europea, è dunque un modo per proteggere chi viaggia, per esempio. Del resto, il virus cammina sulle gambe degli uomini e delle donne.

Sicuramente ha avuto un impatto sulla campagna vaccinale, visto l’aumento delle prenotazioni in pochi giorni, dopo la firma del decreto che stabilisce l’introduzione della certificazione.
In questa fase credo che vadano sfruttate tutte le opportunità per stimolare a vaccinarsi e per cercare di raggiungere – anche attraverso i medici di famiglia che più e meglio conoscono i loro pazienti – specialmente quei 2 milioni di over 60 che rischiano di più non solo di ammalarsi ma anche di morire di Covid-19. Inoltre il Green pass può avere una funzione utile sui più giovani, che per spirito di emulazione rispetto ai coetanei che con la certificazione possono fare delle cose altrimenti non permesse – cose da fare sempre in sicurezza – potranno scegliere di vaccinarsi.

In vista di settembre e della riprese delle attività lavorative oltre che della riapertura delle scuole quale sarà la procedura da seguire per la somministrazione della terza dose di vaccino?
Considerando che laddove non ci sarà la disponibilità di una vaccinazione pediatrica avremo 6 milioni di bambini non vaccinati, il virus continuerà a circolare e quella che potremo raggiungere non sarà l’immunità di gregge ma una immunità di comunità, con una copertura dell’80% della popolazione. Attualmente la protezione riconosciuta dal Green pass con due dosi è di 9 mesi mentre sono 6 i mesi riconosciuti a chi ha avuto la malattia ed è guarito. Tuttavia uno studio pubblicato sulla rivista “Nature Communications” e condotto da un team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Imperial College di Londra, grazie allo screening sierologico della popolazione di Vo Euganeo, uno dei primi centri di diffusione in Italia del coronavirus, ci dice che nei soggetti infettati, sia sintomatici che asintomatici, gli anticorpi contro la proteina Spike sono presenti ben oltre i 6 mesi dalla guarigione, addirittura anche oltre un anno. Ancora, uno studio della Rockfeller University dice che la memoria immunologica in chi è stato contagiato e poi è guarito dura a lungo, in alcuni la risposta immunitaria potrebbe durare addirittura tutta la vita.

Questo significa che la somministrazione della terza dose di vaccino andrà modulata a seconda dei diversi casi?
Andrà valutato a chi e quando somministrare la terza dose e soprattutto andrà valutato che cosa somministrare perché i vaccini sono stati prodotti quando a circolare era una sola variante del virus, quella originaria individuata dal team di ricerca del professor Ciccozzi, con il quale anche io ho collaborato. Se utilizziamo per la terza dose lo stesso vaccino, aumentiamo la quantità ma non la qualità del farmaco. Va poi detta una cosa di cui si parla troppo poco e cioè che la ricerca continua non solo sul fronte dei vaccini ma anche sugli anticorpi monoclonali, che sono efficaci contro tutte le varianti, e sugli inibitori della proteasi, cioè veri e propri farmaci che speriamo possano essere disponibili entro il prossimo anno.

29 luglio 2021