“Contromano”, l’immigrazione vista da Albanese

Nelle sale la quarta prova da regista dell’attore: un viaggio tra comicità e ironia, per «mettere a fuoco l’argomento controverso dell’integrazione tra culture e popoli diversi»

È a partire da questo terzo millennio che il tema dell’immigrazione ha imposto con forza l’urgenza e la necessità di una soluzione condivisa tra i soggetti interessati, rispettando le esigenze dei residenti da un lato e insieme quelle di non mortificare le legittime attese di chi arriva in Italia cercando (e sperando) di migliorare il proprio tenore di vita. Il cinema, dopo un periodo iniziale in cui l’argomento è stato trattato con toni tesi e drammatici, ha virato decisamente su un versante meno complicato, cercando di farlo scivolare verso gli stilemi della commedia, nelle sue cento sfumature caratteriali.

Questa strada, che ha dei precedenti ad esempio in titoli quali Non c’è più religione (2016) o Pitza e datteri (2015), viene seguita anche da Contromano, uscito nelle sale il 29 marzo. Il film è interpretato e diretto da Antonio Albanese, che arriva qui alla sua quarta regia dopo Uomo d’acqua dolce (1996), La fame e la sete (1999), Il nostro matrimonio è in crisi (2002). La storia prende il via a Milano, dove Mario Cavallaro, un cinquantenne amante di ordine e precisione, trascorre la giornata tra la propria casa e il negozio di calze ereditato dal padre. Il suo abitudinario procedere dall’abitazione al posto di lavoro riceve un brutto colpo quando, proprio fuori dalle sue vetrine, comincia a stazionare un senegalese che vende calzini con notevole successo. Mario osserva per un po’ gli affari del giovane, prova a parlarci e infine decide di agire. Dopo averlo tramortito, rapisce Oba (così si chiama) con l’obiettivo di riportarlo a casa, in Senegal…

Il viaggio è il cuore e il centro della vicenda, «un viaggio assurdo – dice l’Albanese regista – per raccontare le contraddizioni e le paure contemporanee, usare comicità e ironia per mettere a fuoco l’argomento più controverso di questo decennio: l’integrazione tra società, culture e popoli diversi». Lo scarto narrativo che impone il cambio di direzione produce il passaggio dal realismo della parte iniziale alla contiguità con la favola. Ed è una sensazione che attraversa tutto il resto del copione. C’è sapore di fiaba nell’unirsi a Mario e Oba della connazionale Dalida, forse sua sorella forse no, c’è profumo di fiaba nelle varie tappe del trasferimento dall’Italia al Senegal, risulta poco credibile la facilità con cui il terzetto si smarca dalla morsa della polizia e approda sul traghetto per l’Africa. Ma tutto inclina verso un finale poetico e positivo di sognata e paradossale felicità.

L’entusiasmo che accende Mario quando capisce l’utilità di mettersi al servizio degli altri per aiutarli a crescere e insieme per essere anche lui migliore è forse fin troppo indulgente, profetizza l’idea di un futuro per qualche verso eccessivamente ottimista, ma, diciamolo, è bello e giusto che sia così. La commedia, se tale deve essere, ha anche il compito di indurci al sorriso, alla gioia, alla felicità, con maggiori o minori sensazioni di verità. Crediamoci in quello che racconta Albanese e forse saremo capaci di raggiungere il traguardo.

3 aprile 2018