“Comedians” e l’identità dell’attore

Nella pellicola di Gabriele Salvatores, il cinema in primo piano, con una visionarietà duttile e intensa. Utile e necessaria per riflettere sul nostro eterno “Uno, nessuno e centomila”

Gabriele Salvatores aveva già lavorato su Comedians, testo teatrale dell’inglese Trevor Griffiths, nel 1985 agli inizi della carriera. Salvatores è, nel cinema italiano, un nome in grado di lasciare tracce non superficiali. Non solo per il Premio Oscar vinto nel 1992 per Mediterraneo, ma soprattutto perché, puntando su alcune tematiche “forti” (la fuga, la ricerca di identità, la ribellione…) quasi mai si ripete, anzi svaria attraverso molti argomenti. Oggi sembra tornare agli esordi, con toni ibridi tra cinema e teatro, con richiami a Shakespeare e poi con la scelta di concentrarsi sull’attore, sulla sua voglia di essere attuale e “moderno”.

Comedians, che arriva ora nelle sale (finalmente in sala!), è l’occasione per il regista di rimettere in gioco un ruolo da sempre dibattuto, in una situazione nella quale si fa fatica a capire cosa vuole il pubblico, cosa si aspetta in termini di lettura e di approccio alla realtà quotidiana. Lasciando inalterato il copione precedente, Salvatores mette in scena sei attori, sei nomi che, affidandosi al monologo, devono provare a convincere Eddie Barni, l’insegnante che li ha preparati, ma soprattutto Bernardo Celli, intenzionato ad offrire ad uno di loro un contratto nella sua Agenzia di spettacolo e magari un programma televisivo di prima serata. Tra i sei la competizione è ben presto aperta. E in tutti ci sono motivazioni solide e credibili.

Quella che resta in primo piano è la ricerca della risata, la capacità di creare situazioni paradossali e rarefatte. Molti degli attori si lasciano andare a battute di un umorismo cinico e distante, indulgono in suggestioni con vuoti comici che suscitano ilarità ma in verità sono il risultato dell’ansia di emergere, sottendono la paura di perdere anche questa ultima, preziosa occasione di lavoro. Tutto concentrato sull’unità di luogo e di azione, dentro il quale i sei agitano i rispettivi tentativi di farsi vedere attivi e volenterosi, a poco a poco il clima dell’incontro indulge al malinconico. Mentre arriva da fuori il rumore di una pioggia sempre più battente, gli sforzi degli aspiranti attori si concentrano sul momento della resa dei conti. Ma chi è l’attore oggi, e qual è la sua identità? Chi deve far ridere in tempi come gli attuali di fronte a una frammentazione ormai così profonda della quotidianità, da risultare credibile solo nell’ottica della totale irrealtà?

Tra i sei ci sono vincitori e vinti, a conferma che senza competizione manca il sale delle cose, eppure nel gruppo a prevalere sono amarezza, tristezza, la voglia di riprovarci, perché finito un ruolo se ne apre un altro. Salvatores offre la conferma di una capacità narrativa seria e intelligente. Si parla di teatro ma il cinema si prende il primo piano, grazie a una visionarietà duttile e intensa. Film non facile e per niente accomodante ma utile e necessario per riflettere sul nostro eterno “Uno, nessuno e centomila”.

21 giugno 2021