I Comboniani: stop allo sfruttamento dell’Africa

La denuncia dei missionari: «Spesso le oligarchie locali sono al soldo di potentati stranieri. Gli sbarchi sono il risultato dello sfruttamento del continente. Ma è più comodo pensare che non ci siano legami»

C’è un legame molto stretto tra lo stile di vita, di produzione e di consumo dell’Europa, gli sbarchi dei migranti sulle nostre coste e le condizioni economiche e sociali dei Paesi africani. Se veramente si volesse “aiutarli a casa loro” bisognerebbe mettere in discussione lo stile di vita europeo e i nostri rapporti con l’Africa. È questo il messaggio semplice e lineare che i missionari Comboniani (istituto che celebra i 150 anni dalla fondazione) hanno lanciato ieri, martedì 14 novembre, con una conferenza stampa in cui hanno dato voce alle loro esperienze in Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Kenya e Palermo. “L’Africa non è una fake news” è il titolo provocatorio che danno al loro documento di denuncia. Aggiungendo: «Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore».

«Si dimentica troppo facilmente che spesso le oligarchie locali africane sono al soldo di potentati stranieri (cinesi, americani, europei…) – sottolinea padre Rogelio Bustos, del Consiglio generale dei Comboniani -. Col risultato che in Africa si acuiscono a dismisura fenomeni come l’esclusione sociale o il land grabbing (il cosiddetto accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere di Paesi ricchi), unitamente allo sfruttamento delle commodity (materie prime)». Non solo. Con l’accordo di partenariato economico (Epa) tra Unione Europea e Paesi Acp (Africa, Caraibi e Pacifico) sono state eliminate tutte le barriere all’entrata su merci, prodotti agricoli e servizi provenienti dall’Ue: un libero scambio che avrebbe dovuto permettere anche lo sviluppo dell’export africano. «Purtroppo il risultato è di segno contrario: con il ribasso progressivo delle tariffe doganali all’importazione dei prodotti europei, si sta generando un danno irreversibile alle già precarie economie nazionali africane», sottolineano i Comboniani.

Lo sfruttamento dell’Africa ne incentiva e peggiora la già precaria condizione economica e sociale. Le guerre, spesso nate per il controllo delle risorse di cui l’Africa è ricca, costringono milioni di persone a fuggire. «Da ormai quasi un anno celebro la Messa domenicale con gli sfollati nel campo di protezione dei civili gestito dall’Onu a Juba (nel Sud Sudan, ndr) che ospita circa 30mila persone di etnia Nuer – racconta padre Christian Carlassare -. Oltre ai 200mila civili che vivono nei vari campi dell’Onu all’interno del paese, oltre ai 2 milioni di abitanti che hanno perso la loro casa e sono ora sfollati in altre zone». Anche nella Repubblica Centrafricana la guerra civile sta costringendo migliaia di persone a lasciare tutto e cercare rifugio nei campi profughi, spesso allestiti e quasi improvvisati nelle parrocchie dei missionari. Tutte persone che hanno perso la loro casa. «Ho sentito che politici di destra e di sinistra in Italia stanno usando lo slogan: “Aiutiamoli a casa loro” – aggiunge padre Christian -. Idea che fa presa perché sembra sensata ma non tiene conto di una realtà più complessa. I campi rifugiati di cui l’Africa è piena possono forse essere considerati casa loro? Di quale casa stiamo parlando se è stata scossa fin nelle fondamenta? Per ripararla oltre a un intervento locale occorre anche un impegno più globale. Ormai non ci sono più case nostre o case loro, ma una sola casa comune che va restaurata nel suo splendore originale».

Non esiste dunque un “noi” e un “loro”. Gli sbarchi sono il drammatico risultato di un modo di concepire la politica e il rapporto tra gli stati che ha come unico obiettivo il profitto e non il benessere delle persone. Di un modo di fare politica che sfrutta uomini, ambiente e risorse. Eppure di fronte alla morte di migliaia di migranti nel Mediterraneo e all’odissea vissuta di chi sopravvive «una parte dei media tende ad alimentare paura e insicurezza facendo crescere sentimenti xenofobi e di rifiuto», afferma padre Domenico Guarino, missionario a Palermo. «Manca ancora, in questo nostro tempo, uno sguardo lungimirante, inclusivo, capace di andare oltre l’emergenza per rivolgersi al futuro – aggiunge -. In tale contesto diventa difficile per le popolazioni comprendere che l’integrazione non è una scelta ma una necessità. Inoltre, come troppo spesso è avvenuto, l’Europa si è tirata fuori da qualsiasi responsabilità e l’Italia, con il decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione e i “patti scellerati” fatti con la Libia, ha reso molto più drammatica la vita dei migranti abbandonandoli lì dove i diritti sono violati quotidianamente».

15 novembre 2017