Cittadinanza, tutto quello che c’è da sapere sul caso Suarez

A far discutere, la truffa e le modalità con cui l’iter è andato avanti. «Inaccettabile disparità con chi vive qui da anni», soprattutto per la celerità della pratica

Una truffa per ottenere la cittadinanza italiana. È quanto emerge dalle indagini della procura di Perugia sul caso del calciatore uruguaiano Luis Suarez, che la scorsa settimana all’Università per gli stranieri, si è sottoposto all’esame di lingua B1. «Non spiccica una parola, non coniuga i verbi, parla all’infinito ma guadagna 10 milioni a stagione: deve passare». Sono queste le frasi estrapolate dalle intercettazioni che non lascerebbero molti dubbi sull’irregolarità della prova. Fin da subito i tempi con cui era stato sostenuto l’esame hanno sollevato non poche perplessità, così come il tempo record con cui la sua pratica stava andando avanti.

Luis Suarez infatti ha fatto richiesta di cittadinanza per matrimonio. Sua moglie, uruguaiana come lui, ha anche il passaporto italiano grazie a un legame di parentela (suo nonno era friulano). La richiesta del calciatore rientra quindi nei casi già previsti dalla 91/92, la legge che regola appunto le acquisizioni di cittadinanza italiana, basata sullo ius sanguinis. Oltre a questa fattispecie, si può chiedere di diventare cittadini per naturalizzazione, dimostrando di aver risieduto regolarmente per almeno 10 anni nel Paese. Chi nasce qui, da genitori stranieri, invece, può fare domanda di cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni.

Già prima dell’accertamento della truffa il caso aveva sollevato diverse polemiche, proprio per la celerità della pratica, che avrebbe permesso al campione di diventare comunitario e poter essere tesserato con la Juventus. Per effetto dell’entrata in vigore dei decreti sicurezza, voluti dall’ex ministro Matteo Salvini, i tempi per la richiesta di cittadinanza italiana sono stati allungati da 2 a 4 anni, per chi ne fa richiesta per matrimonio (come nel caso di Suarez appunto) o residenza. Non solo, ma con i decreti Salvini (convertiti nella legge 132 del 2018) è stato introdotto anche l’esame di lingua B1  che prima non era previsto. Questo ha creato ulteriori lungaggini burocratiche, soprattutto nel periodo dell’emergenza sanitaria legata al coronavirus. Le sessioni di esame, infatti, si sono bloccate per la quarantena e i posti sono diminuiti, così chi ha già maturato i requisiti per la domanda non riesce a fare l’esame. «La più grossa difficoltà è reperire le sedi in cui gli studenti possano fare gli esami. Nei mesi del lockdown non sono stati fatti, neanche online, perché non tutti gli stranieri hanno gli strumenti digitali adatti né il collegamento a internet. Quindi i tempi di attesa oggi sono molto lunghi», spiega Paola Cattoretti, che da oltre 15 anni insegna Italiano per stranieri, e dal 2016 lavora in una scuola di lingue a Busto Arsizio, la Wall Street English. Negli anni, come volontaria in un centro di ascolto Caritas, si è occupata di aiutare, in particolare, le donne che venivano in Italia a lavorare come badanti. «Attualmente sto seguendo il caso di una signora da vent’anni in Italia, che deve appunto accedere all’esame B1 per poter continuare l’iter della richiesta di cittadinanza – spiega -. Lavora da anni qui e parla perfettamente la nostra lingua, per lei il test è superfluo, ma per legge lo deve fare. Mi fa molto indignare che ci sia questa discriminazione palese: un personaggio pubblico noto può avere una corsia preferenziale, mentre ci sono cittadini che vivono sul nostro territorio che devono attendere anni. Anche solo ottenere tutta la documentazione necessaria è un processo lungo, dal reperimento dei documenti originali alle traduzioni. Questo porta molte persone a rinunciare».

Cattoretti spiega inoltre che la prova B1 è complessa, per questo era quasi impossibile che Suarez l’avesse superata in mezz’ora. «Io ho provato a farla e ci sono delle parti di comprensione del testo, anche molto lunghe, che richiedono una lettura attenta – aggiunge -. Bisogna capire le parole chiave e avere una conoscenza della grammatica. Per questo nei nostri corsi prepariamo anche le persone che sono da anni qui, parlano e capiscono perfettamente ma che potrebbero avere problemi con la scrittura».

A questo si aggiungono i casi delle persone che da anni vivono in Italia e non riescono a vedersi riconosciuto il diritto a diventare cittadini, spesso per un cavillo legale. Quelli che non sono Suarez: gli italiani senza cittadinanza che aspettano da anni. Come Fatjona Lamçe, cresciuta in Italia, che oggi ha un marito e due figlie italiane. Nonostante questo, però, ha rischiato di essere rimandata in Albania con un foglio di via. È l’unica della sua famiglia, infatti, a non essere italiana: anche i suoi genitori, arrivati qui alla fine degli anni ‘90 sono diventati cittadini per naturalizzazione. «Non ho pensato subito a fare domanda. L’ho fatto solo due anni dopo il matrimonio, nel novembre del 2017, anche se sono più di vent’anni che sono qui: sono arrivata in Italia a 11 anni e ora ne ho 33 – racconta -. Ho avuto un problema con il permesso di soggiorno e fatto domanda per la carta di soggiorno (permesso CE per lungosoggiornanti, ndr). Nel frattempo con mio marito abbiamo deciso di cambiare casa – spiega -. Non sapevo di dover comunicare il cambio di residenza, così quando sono venuti a controllare che non avessi dichiarato il falso non mi hanno trovata al vecchio indirizzo e ho ricevuto un foglio di espulsione. Non potevo crederci, la mia bambina era appena nata e io, dopo 20 anni anni in Italia, mi ritrovavo col foglio di via». Una volta in questura l’equivoco si chiarisce. Ma il problema rimane. «Mi hanno dato un permesso di soggiorno in quanto madre di una bambina italiana ma hanno completamente resettato tutta la mia storia precedente. Non ho ottenuto la carta di soggiorno, perché per loro sono formalmente in Italia dal 2017. Anche se il mio ingresso è stato il 2 giugno del 1999».

Storie come la sua non sono casi isolati, spesso frutto di una discriminazione anche burocratica. Erandika Conthrath Arachchige, per esempio, è arrivata in Italia a sette mesi. La sua famiglia ha deciso di trasferirsi dallo Sri Lanka poco dopo la sua nascita. Oggi ha 23 anni, vive a Milano, dove studia all’università, ma non è ancora cittadina italiana. «I miei genitori non hanno mai fatto richiesta, io mi sono mossa subito dopo aver compiuto 18 anni. A febbraio 2017 la mia domanda è stata accettata. Andavo continuamente sul portale dedicato e vedevo che la mia pratica stava andando avanti, in poco tempo sono passata dalla fase uno alla fase tre, con l’istruttoria completata – racconta -. Poi, improvvisamente, l’iter è tornato indietro: il messaggio sul sito era uguale a quello che avevo visto due anni prima e diceva che si stavano facendo accertamenti». A complicare il percorso verso la cittadinanza di Erandika e degli altri ragazzi cresciuti qui da genitori stranieri è intervenuto infatti il dl sicurezza n.113 del 4 ottobre 2018, convertito nella legge 132.

Che fine ha fatto la riforma della cittadinanza? Da tempo i ragazzi nati e cresciuti in Italia stanno portando avanti una battaglia per accorciare i tempi di acquisizione della cittadinanza. E per poter aver accesso ai diritti civili, come quello di poter votare. In particolare chiedono, nell’immediato, che venga rivisto il criterio contenuto nella legge 132, che allunga i tempi a 4 anni. E che si porti finalmente a compimento una riforma della legge 91/92, considerata ormai datata e obsoleta. Alla Camera il 13 ottobre del 2015 è stato approvato un disegno di legge che prevedeva uno ius soli temperato per i figli degli stranieri in possesso del permesso Ce di lungo periodo (ex Carta di soggiorno) e uno ius culturae, per i ragazzi cresciuti in Italia che frequentano le scuole nel nostro Paese. La riforma non è mai stata approvata al Senato. Nella nuova legislatura il processo di revisione della legge aveva timidamente ripreso il via ma l’esame delle proposte di modifica si è fermato per l’emergenza coronavirus. (Eleonora Camilli)

23 settembre 2020