“Cevengur”, lo spirito libero di Platonov
Nel capolavoro recentemente ristampato da Einaudi, il disegno della Storia diventa uno scarabocchio e il tentativo di cambiare il mondo è destinato alla sconfitta
Nel capolavoro recentemente ristampato da Einaudi, il disegno della Storia diventa uno scarabocchio e il tentativo di cambiare il mondo è destinato alla sconfitta
Andrej Platonov aveva l’età di Hemingway, nato come lui alla fine del XIX secolo. Mentre il grande scrittore americano era acclamato in ogni parte del mondo, l’altrettanto grande scrittore russo, dopo aver vissuto un’esistenza di stenti e povertà, morì da solo in un ospizio puzzolente alle porte di Mosca. L’unica sua colpa fu quella di essere uno spirito libero, che non poteva venire inquadrato negli schemi del partito sovietico. Per questo venne mandato al confino. Lavorò come portinaio all’istituto di letteratura della capitale: quasi fosse un personaggio gogoliano. In realtà possedeva un carattere satirico, ma non troppo sfrontato.
C’era una dolcezza in Platonov. E una forza che travalicava gli argini della semplice rappresentazione realistica. Leggi un qualsiasi suo libro e senti il soffio lirico che viene dalla steppa. Gli uomini che a lui interessano potrebbero essere angeli. Le donne recano in sé una radice della natura. I bambini sono preziosi quasi più degli adulti. Ma quel che davvero conta è il disegno della Storia che in “Cevengur”, capolavoro recentemente ristampato da Einaudi (a cura di Ornella Discacciati, pp.512), diventa uno scarabocchio: il puerile tentativo di cambiare il mondo, nella convinzione di questo scrittore, era destinato alla più cocente sconfitta. La tenerezza di quanti in buona fede avevano cercato di rendere gli uomini tutti uguali fu tradita dalla protervia e dall’arroganza di pochi che, una volta preso il potere, non esitarono ad avvelenare i pozzi.
Platonov era nato a Voronez, sulla strada che da Mosca porta a Stalingrado. Rileggere “Cevengur” significa tornare a respirare gli spazi di una grande illusione palingenetica. Negli occhi del giovane Sacha, orfano del padre annegato nella palude, forse suicida con l’intenzione di vedere cosa ci fosse oltre la vita, si riflette un’umanità bislacca di contadini e meccanici, operai e ferrovieri, bizzarri cavalieri che incitano il proprio cavallo chiamandolo Rosa Luxemburg, tutti impegnati a fare la rivoluzione qui, ed ora, contro i borghesi fucilati dai cekisti. Il mondo è bello e feroce: ecco un’altra espressione di Platonov. A volte le immagini che scorrono in “Cevengur” potrebbero essere quelle percepite da un cane randagio che scodinzola affamato sulle rive del fiume. Cosa sarebbe il mondo nella sua prospettiva? Nient’altro che una vecchia città con le torri, i balconi, le chiese, i lunghi edifici delle scuole, dei tribunali, degli uffici, là dove gli esseri umani organizzano e progettano, fanno traffici che pochi comprendono. Quando la loro straordinaria alacrità attivistica finirà, resterà soltanto la notte con l’odore di lontane erbe. Questo ci voleva dire Platonov, con piglio fortemente cechoviano. Farfalle e zanzare abiteranno negli stagni abbandonati. Sulle vecchie fabbriche crescerà un manto fangoso che avrà distrutto il sogno proletario.
13 maggio 2015