Cechov e “La mia vita”, compendio della letteratura russa

Al centro, il tema del tempo che tutto brucia e annichilisce e il ruolo dell’uomo, chiamato a dare testimonianza nel passaggio inarrestabile delle stagioni

Fra i grandi racconti cechoviani, “La mia vita”, pubblicato nel 1896 e ristampato da Passigli nella storica traduzione di Giovanni Faccioli (pp. 110, 12,50 euro), rappresenta un vertice insuperato: in un centinaio di pagine il lettore ha l’impressione di compiere un’esperienza molto più lunga, come se avesse attraversato un mondo. Chi non si fosse mai accostato alla letteratura russa e conoscesse solo questo testo, ne avrebbe comunque uno splendido compendio. Il tema-fondamento è il tempo che tutto brucia e annichilisce, ma proprio nel passaggio inarrestabile delle stagioni l’uomo viene chiamato a dare testimonianza.

È il caso di Poloznev, soprannominato Misaìl ma anche “piccolo guadagno” dai compagni che lo deridono, orfano di madre e figlio di un possidente, nobile di provincia, il quale, dopo avere tentato una serie di impieghi nei ranghi dell’amministrazione pubblica, disilluso e scontento, rinuncia ai privilegi della sua classe sociale per diventare semplice operaio, nella fattispecie decoratore alle dipendenze di Rèdka. Sembra il classico spunto tolstojano ma in realtà Misaìl non è guidato da una motivazione politica o religiosa: forse è questa è la ragione per cui nessuno riesce a comprenderlo. Anton Cechov imposta la propria riflessione amara e sconsolata descrivendo le reazioni della comunità locale di fronte all’eccentrica scelta dell’imprevedibile rampollo: in primo luogo il rifiuto del padre, incapace di accettare una tale evidente contestazione. Gli scontri fra il vedovo e suo figlio hanno una grande forza drammatica mettendo in scena due caratteri inconciliabili. A un certo punto interviene persino il governatore per chiedere a Misaìl di rientrare nei ranghi oppure andar via e non dare scandalo.

Chi sarà sempre vicino al tormentato protagonista, che racconta in prima persona la propria storia, è la sorella Kleopàtra, a sua volta delusa e sconfitta dopo essersi innamorata di un uomo sposato e aver avuto una bambina destinata a restare illegittima. Il vero amore segreto di suo fratello sarebbe Anjùta Blàgovo, ma anche lei è troppo fragile e insicura per dichiararsi. E così tutti si allontanano da Misaìl. La stessa Maša, una ricca ragazza di Pietroburgo inizialmente infatuata dai comportamenti anticonformisti del giovane e pronta a unirsi in matrimonio con lui, presto si stanca e, incapace di seguirlo, fugge oltreoceano. Il finale del libro è una scure implacabile su ogni possibile residua illusione.Misaìl, tornato nella bottega di Rèdka, di fronte alla tomba della madre, sembra una statua. A tenergli compagnia sono l’inconsapevole nipotina e l’antica spasimante che, uscendo dal cimitero, è pronta a rallentare il passo pur di rimanere più a lungo vicina.

«Ma quando entriamo in città, Anjùta Blàgovo agitandosi e facendosi rossa, mi dice addio e prosegue sola, impettita e severa… E più nessuno di quanti la incontrano potrebbe pensare, guardandola, che ella un momento prima camminava al mio fianco e anzi accarezzava la bambina». In questo passaggio si ha l’impressione che Anton Cechov si accinga a consegnare il testimone della narrativa russa a Samuel Beckett. Dalla pienezza vitale al vuoto del non senso. Potrebbe essere così, ma la torcia fiammeggiante nel buio di questa memorabile opera è ancora talmente luminosa che, in un modo indicibile e misterioso, continua, nonostante tutto, a illuminare il percorso davanti a noi.

20 luglio 2020