C’è sempre un’«uscita» alla fonte di ogni fecondità

Per diffondere nel mondo la sua Parola, Dio stesso si fa migrante, esce dalla sua terra, che è il Cielo, e scende in mezzo ai campi che sono l’intera umanità

«In seguito egli se ne andava per città e villaggi… Poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: “Il seminatore uscì a seminare il suo seme”…». (Lc 8, 5-18) . In una delle più note parabole evangeliche vediamo un contadino che esce a seminare. Un fatto così semplice, per gli uomini del tempo di Gesù, che non indurrebbe a nessuna sosta riflessiva se non fosse che le parabole son delle metafore, dei paragoni tracciati tra le ordinarie esperienze umane e “i misteri del Regno di Dio”. Sarà il Maestro stesso a dire questo e ad illustrare il senso che sta sotto o che va oltre il gesto di un seminatore d’orzo o di grano.

Per noi, però, ancor prima viene la decisione che quegli prende di uscire dalla sua casa per andare a seminare: un modo per ribadire che alla fonte di ogni fecondità, all’origine di ogni frutto, c’è un “esodo”, la volontà di generare qualcosa di nuovo. Ma quando il seminatore esce col seme in tasca mille sono le incognite su come andrà a finire la sua giornata e, specialmente, che fine farà il seme. A condizionare il successo della sua semina va, infatti, la qualità del terreno dove cade. Dice Gesù: «Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la mangiarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. Un’altra parte cadde in mezzo ai rovi e i rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!”».

Seguiamo, allora, il monito del narratore stesso, che è Gesù: affiniamo gli orecchi per capire a che si riferisca la metafora. O, meglio, ci conviene fare come i discepoli che andarono a interrogare Gesù, colpiti sia dal fatto che tre quarti del seme andasse sprecato, sia che una sola parte avesse prodotto una quantità davvero enorme di grano. Il seminatore è Dio, dice il Maestro e la semente è la Sua Parola. Per diffonderla nel mondo è Dio stesso che si fa migrante, esce dalla sua terra – che è il Cielo – e scende in mezzo ai campi che sono l’intera umanità. Il seme, allora, diventa metafora di quella Parola che è il Figlio di Dio, che l’evangelista Giovanni chiama, appunto “Parola”. Ed è proprio il Figlio che, facendosi carne, è dato come seme di vita per il mondo.

Ed ecco la ragione dello sciupìo del seme: neppure a chi si trova, metaforicamente, in una terra dura e ottusa come la pietra o in una posizione precaria e di passaggio come chi è sulla strada, è preclusa la Parola, neppure a chi cresce in una terra aspra, aggredita dai rovi e soverchia di spine. Per tutti c’è la possibilità di ascoltare quella voce di rinascita, a tutti il Seminatore dona l’occasione. E in specie, ai cristiani, responsabili di coltivare la loro terra perché il seme si colmi di frutti. Un compito sempre più difficile che esige nuove e inedite “uscite”: se sono in superficie devono aprirsi all’interiorità; se sono colmi di mille inconsistenze devono liberarsene.

31 gennaio 2022