L’esperto Franco Nembrini: «I nostri figli soffrono di “orfanezza”. Ma per vivere hanno bisogno di misericordia, di essere perdonati». Altri 3 appuntamenti fino al 21 febbraio al Teatro Orione
«La nostra è una generazione di figli che non vede speranza sufficiente e quindi non ce la fa a diventare grande. Anzi, rischia di sentire come una oscura colpa. Quasi che fosse una colpa l’essere venuto al mondo. E molti si puniscono per questo. Non hanno nessuno che gli attesti la bontà della vita, dell’esserci». Franco Nembrini, insegnante, rettore della scuola paritaria La Traccia, in provincia di Bergamo, sul tema dell’emergenza educativa ha un’idea ben precisa: «Il problema non sono i figli, siamo noi, gli adulti». Inutile dunque continuare a rimpallare la responsabilità, quasi come una girandola impazzita, alla scuola, alla famiglia o ai catechisti. Quello che manca oggi sono i «testimoni».
Di fronte alla platea di insegnanti, catechisti, genitori, che sabato 27 settembre si è ritrovata al Seminario Romano Maggiore, per l’incontro organizzato dall’Ufficio catechistico della diocesi sul “rischio di educare”, Nembrini è andato dritto al problema: «L’educazione non ha bisogno di parole, ma di fatti». Quarto di dieci figli, autore del libro “Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare” (edizione Ares) e appassionato di Dante (tra i suoi estimatori anche Roberto Benigni, che pare abbia imparato a spiegare il sommo poeta proprio prendendo spunto dalle letture dell’insegnante bergamasco), per Nembrini «nell’educazione non esistono ricette, la strada concreta bisogna cercarla, perché non c’è a priori». Ma su un presupposto bisogna essere tutti d’accordo: «I genitori non danno solo la vita. Gli uomini hanno anche un certo “sentire” della vita e con essa il sentimento della sua grandezza e positività. L’educazione, che non è indottrinamento, richiede come prima virtù questa fiducia. Quando viene al mondo, il figlio osserva, perché ha già dentro questa attrattiva, quel movimento verso le cose, quel desiderio: vorrebbe vedere che la vita è una cosa grande».
Ed è qui che entrano in gioco i genitori. «Mio padre – ha ricordato Nembrini – si è occupato della sua santità, non della mia. E così facendo si è occupato del suo essere padre, del suo rapporto con noi. Era “ignorante”, parlava in dialetto, ma sapeva tutto delle cose che bisogna sapere per vivere: la differenza tra verità e menzogna, vita e morte. E io potevo seguirlo, fiducioso che sarei diventato un uomo grande, lieto, come lui. I giovani oggi vivono una pressione sociale spaventosa. Le mamme – ha poi aggiunto con una nota di amara ironia – senza accorgersene guardano i figli con il giudizio di valore che è quello della performance scolastica. Ma la scuola è uno strumento, non è lo scopo della vita. L’educazione comincia dal perdono, dalla misericordia. Questi figli, come dice papa Francesco, soffrono di “orfanezza”. Ma per vivere hanno bisogno di misericordia, di essere perdonati».
«Ci rendiamo conto che oggi nell’annuncio della fede – ha rimarcato monsignor Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano – educatori, genitori, catechisti hanno gli stessi problemi. Dobbiamo accendere nei ragazzi una scintilla, mostrare loro la grandezza e la bellezza della fede, della poesia. Educare vuol dire testimoniare una cosa che è grande».
Sul “rischio di educare” i catechisti della diocesi si confronteranno ancora con Nembrini l’11 ottobre, il 9 novembre e il 21 febbraio alle ore 21 al Teatro Orione.
29 settembre 2014