Carcere, quei drammi familiari di cui farsi carico

Dove c’è un detenuto c’è un legame da non spezzare. L’importanza di un ascolto profondo di chi fuori vive una “detenzione” emotiva e affettiva pesante

“Chiudiamoli dentro e buttiamo la chiave”. Frase storica, usata, abusata rispetto a chi vive l’esperienza del carcere. Entrata ormai nel gergo comune, dettata spesso dalla paura, dalla rabbia, dall’esasperazione per un mondo che sembra in caduta libera. Ma c’è altro. Frase dettata dalla non conoscenza, dal sentito dire, da una rapida classificazione del “problema”. Allora entriamo in questa realtà, non con la pretesa di un buonismo che cancelli le colpe e crei ingiustizie, ma con l’intenzione di capire di più, di entrare in un “non luogo”, di visitare, anche se solo virtualmente, una realtà di vita vicina quanto distante.

Il carcere di Rebibbia, a Roma, rappresenta una città nella città, luogo che ospita le più svariate esperienze di vita e, oserei dire, di morte. Di quella morte non fisica ma spirituale, interiore, la morte che deriva dalla perdita di ogni dignità a causa di una vita segnata dall’errore e dalla caduta. Nel carcere si incontrano tante storie, visi che portano dentro un vissuto e che rimandano, non solo alla storia personale, ma anche a un tessuto familiare fortemente compromesso. Dietro ogni detenuto c’è un’esistenza complessa, una famiglia, legami coniugali e genitoriali. Compito del percorso riabilitativo non è solo quello di far scontare una pena e reinserire nella società ma di prendersi carico di tutto il tessuto relazionale che il detenuto porta dentro di sé.

Tante le ricadute sulla vita familiare. Nel pochissimo tempo destinato alle visite in carcere, si devono tenere in piedi legami esistenti ma lacerati dalla detenzione e dalla lontananza, si deve continuare a rimanere padri, madri, mariti, mogli, in un’assenza che rende difficoltosa la salvaguardia dell’unione. Basti pensare che nell’arco di un anno il tempo riservato agli incontri è di 72 ore, 6 ore al mese da dividere tra tutti i componenti della famiglia che insieme non possono visitare il carcerato. Questo significa che si è compagni di vita o genitori per una manciata di ore al mese, con bambini spesso piccoli da crescere e adolescenti da poter seguire. La sofferenza di chi vive fuori dal carcere è molto profonda e occorre creare una rete che mantenga unite, anche se spesso solo virtualmente, famiglie spezzate. Spesso tocca ai volontari tenere i rapporti con i familiari che rappresentano una reale periferia esistenziale.

Fondamentali sono i momenti in cui si dedica spazio all’ascolto di chi, fuori, vive la solitudine morale, spirituale, i dubbi, le paure, i timori di un futuro incerto per sé e per i figli. L’emergenza materiale è ingente: spesso il detenuto era l’unico sostentamento di tutto il nucleo familiare e la sua mancanza, il lungo tempo prima del ritorno, non garantisce la costruzione di una quotidianità degna e dignitosa. La rete di aiuti diventa il tassello necessario per la sopravvivenza di queste famiglie, l’ascolto del loro dolore, la via per non sentirsi abbandonati, dimenticati dagli affetti e da un sistema carcerario che, nelle sue regole, non agevola la continuità affettiva.

La perdita di una figura di riferimento importante ricade pesantemente su chi, fuori, deve lottare ogni giorno per la sopravvivenza propria e dei propri figli, su chi deve far da madre e padre a piccole vite in crescita, deve “tamponare” esigenze di ogni tipo soprattutto emotive e affettive. Un’ulteriore criticità è rappresentata dal giudizio che la famiglia di un detenuto vive sulla propria pelle. La discriminazione davanti a storie di vita così pesanti, ma anche la paura che ognuno di noi può sperimentare davanti a una realtà sconosciuta e critica, chiude l’intera famiglia in una solitudine relazionale che spesso pesa ancora di più della detenzione stessa.

Il carcere allarga quindi la sua realtà di periferia oltre le sbarre, laddove vive ogni componente di quel nucleo familiare toccato profondamente dal reato. Non si vuole assolvere e mostrare il carcerato come la vittima. Non lo è, e lo sa. Sa di aver sbagliato, di aver buttato la sua e l’altrui vita, sa il male che ha fatto e per il quale paga. Non tutti, bisogna dirlo. Alcuni rimangono ancorati alla presunta giustizia dei loro atti, altri faticano a riconoscere la propria responsabilità.

La sfida che da “liberi” possiamo raccogliere è lavorare sul giudizio e pregiudizio che alligna intorno alla vita del detenuto. Guardare alla realtà carceraria in un’ottica più vasta che comprende tutto il suo tessuto familiare, l’impossibilità di una presenza continua, di una mano a crescere figli, a essere guida e punto di riferimento. Dove c’è un detenuto c’è un intero dramma di cui prendersi carico, un legame da non spezzare, un ascolto profondo da donare a chi, fuori dal carcere, vive ogni giorno una detenzione emotiva e affettiva pesante. Vorrei lasciare un esempio realmente sperimentato. Un detenuto, che chiamiamo Stefano, padre biologico di tre figli, che scopre, solo in carcere, di non essere affatto un padre, di non essere stato guida ma peso e zavorra nella crescita dei figli e che oggi spera e desidera ricostruire la sua paternità. Nella speranza di averne ancora il tempo. Quel padre, seppur ha sbagliato, incontrerà i figli nell’area verde del carcere forse una volta al mese. Li vedrà crescere di colloquio in colloquio con accanto una madre che faticherà a ricoprire tutti i ruoli a lei richiesti.

Occorre quindi chiedersi come porsi in ascolto di queste famiglie senza aprirsi al giudizio e al pregiudizio. Occorre accompagnare il loro cammino, confortare, tenere i contatti anche solo con una telefonata, poche parole per trasmettere consolazione, vicinanza e coraggio, essere traghettatori di quel periodo di detenzione verso la costruzione di un futuro diverso anche se spesso non vicino. Un compito non facile ma che, ci auguriamo, non spetti solo ai volontari ma sia assunto come impegno esistenziale da ognuno di noi. Perché il dolore abita nella porta accanto, forse vissuto in solitudine, nell’abbandono, nella paura di parlare per non essere giudicati. Perché il riscatto del detenuto e il suo reinserimento in società passa dall’accoglienza della sua famiglia dove poter ritrovarsi e ritrovare nei propri affetti, la volontà, il coraggio e la speranza di potersi ricostruire. (Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia)

7 febbraio 2020