“Cairn”, lo sguardo e la forza lancinante dei versi di Enrico Testa

Il tema scaturisce da una secrezione dell’esperienza. Non è un gioco: ne va della vita stessa, che «viviamo senza capirne niente / fingendo, alcuni, di capirne tutto»

Nella magnifica, commovente, straordinaria storia dell’evoluzione umana arrivò un momento, perso nella notte dei tempi, in cui gli individui della nostra specie intuirono la loro finitudine. Al contrario degli animali, noi sappiamo che dobbiamo morire. Iniziarono così i primi riti di sepoltura: all’inizio i più consapevoli fra i gruppi di cacciatori – raccoglitori, comandanti e religiosi -, si limitavano a porre dei sassi nel punto in cui lasciavano i cadaveri. Poi subito proseguivano, ma verso quale direzione? Pareva naturale chiederlo a chi non c’era più, come se loro potessero guidare il nostro cammino.

Questa doppia accezione della pietra, monumento commemorativo del defunto e cumulo in grado di orientarci verso l’orizzonte migliore, è presente nella parola, di origine gaelica, “Cairn”, da cui prende il titolo l’ultima raccolta lirica di Enrico Testa (Einaudi, pp. 125, 11 euro), uno dei poeti italiani contemporanei più intensi e persuasivi. Il tema prescelto scaturisce da una secrezione dell’esperienza, non è un gioco, anzi ne va della stessa vita: «non ci diremo addio. / Non sappiamo come dirlo, / e non vale la pena di impararlo», dove a contare, lo confermano il minuscolo dell’esordio e l’assenza, con stretta ungarettiana, del punto finale, è proprio una mancanza di soluzione di continuità fra ciò che non soltanto noi siamo stati, anche chi ci ha preceduto ha forse voluto essere, e ciò che altri saranno senza possibilità di verifica da parte di alcuno.

A chi volesse una prova ancora più significativa di tale condizione di assoluta ignoranza nella quale ci troviamo («viviamo senza capirne niente / fingendo, alcuni, di capirne tutto»), consigliamo di leggere, una settantina di pagine dopo, la poesia Picnic: un pratone incolto nella luce serale dove «cinquant’anni fa / un padre giocava a pallone col figlio» e «vent’anni fa.. / il figlio diventato padre / giocava a pallone con il suo bambino»”. Cosa ci resta? «La rugiada s’annuncia nel bosco / mentre esitante dici: /Fa freddo qui. Meglio andar via». Colpisce in queste poesie come lo sguardo analitico («la fioritura dei papaveri / sul rugginoso ciglio dei binari») s’intrecci con quello complessivo («Tenersi da parte. / Anche a rischio di passar per fesso. / Farsi mettere in minoranza, / nell’assemblea degli io, / anche da me stesso»), secondo la linea magistrale della più decisiva forza novecentesca che parte esplosiva con Eugenio Montale e rende omaggio a Giorgio Caproni e Vittorio Sereni.

Ma tutto nuovo e lancinante appare il virgolettato attribuito agli estinti che, allo stesso tempo «segnavia e segnavita», rovesciano le prospettive, fanno baccano, mandano tutto a monte, urlano ordini inconsulti, si agitano senza pace. O siamo noi a immaginarli così? Cosa vogliono questi spiriti inquieti? Enrico Testa non sa, non può rispondere. Così, supponiamo, sarà stata l’acqua di mare per il marinaio di Coleridge che si lasciò cadere nel gorgo: più ne bevi, più ne vorresti. Come arreso all’arsura, il poeta fa sgocciolare l’ultimo inchiostro per dirci l’unica verità rimasta, il suo personale, assordante, percussivo coro dei morti: «Non possiamo ricominciare ancora. / Soltanto possiamo ancora finire». / «Ma non abbiamo mai finito». / «Oh sì, non crederlo. / Abbiamo finito molte e molte volte. / Non una volta sola. / E ora possiamo finire di nuovo. / E ancora e ancora / Senza un nuovo inizio».

26 marzo 2018