Brexit, cosa succede da oggi?

A spiegarlo il docente di Diritto dell’Unione Europea, Francesco Cherubini: «Prenderanno tempo per evitare colpi di mano. Lunghe trattative»

A spiegarlo il docente di Diritto dell’Unione Europea, Francesco Cherubini: «Prenderanno tempo per evitare colpi di mano. Lunghe trattative» 

Francesco Cherubini risponde al telefono da Durham. Lì, nel nordest dell’Inghilterra, dove il “Remain” aveva prevalso solo in pochissimi collegi, si era capito già durante la maratona notturna che a vincere sarebbe stato il “Leave”. Via, fuori dall’Europa. «Nei mesi passati si era intuito che poteva davvero succedere: i sondaggi, per quanto fluttuanti, riflettevano comunque una situazione molto in bilico», spiega il docente di diritto dell’Unione europea alla Luiss, che si trova per ragioni di studio all’università inglese.

«Ho ripreso un articolo del Guardian del ‘73, quando la Gran Bretagna entrò nella Comunità economica europea: ebbene, non c’era stato un grande appoggio popolare. Mi sa che da allora non è cambiato molto. Ora lo scenario si apre su importanti conseguenze economiche – data l’isteria dei mercati – e conseguenze politiche enormi, sia per il malcontento in Irlanda del Nord e Scozia che per i riflessi di questa scelta sugli altri Paesi Ue».

Mentre parliamo il premier David Cameron si dimette: «A prendere il suo posto potrebbe essere un conservatore brexiter, ossia favorevole all’uscita. E dovrà occuparsi di tutta la pratica». A livello prettamente giuridico, infatti, l’uscita non è immediata. «C’è una norma, l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, che prevede l’uscita e la regolamenta così: il Paese uscente deve notificare le proprie intenzioni al Consiglio europeo, poi si avvia un negoziato da cui scaturisce un trattato di recesso. Ora, l’Unione europea è una organizzazione internazionale estremamente complessa – prosegue Cherubini – dalla quale non si può uscire dalla mattina alla sera. La norma stessa stabilisce che i negoziati possono andare avanti massimo per due anni e prevede, in caso di intesa tra lo Stato uscente e tutti gli altri, la possibilità di una proroga».

Gli equilibri sono più che mai delicati: «La Gran Bretagna – che esporta nell’Ue la metà dei suoi beni – cercherà di uscire in modo ‘soft’, ma se il negoziato prende una brutta piega comunque il recesso entrerà in vigore. A quel punto la Gran Bretagna diventerà, agli occhi dell’Europa e nello stato delle cose, un Paese terzo qualunque, con il quale non ci sono accordi economici di alcun tipo».

Secondo il docente, «dal punto
di vista strettamente giuridico, comunque, la partecipazione della Gran Bretagna all’Ue è sempre stata un po’ annacquata, perché in molti ambiti ha preteso condizioni differenziate. A pesare molto sul voto, in questo caso, è stata la questione immigrati: in merito – sottolinea – c’è stato un errore di comunicazione, perché, dentro o fuori Ue, la Gran Bretagna manteneva comunque un alto grado di autonomia in tema di immigrazione, soprattutto di cittadini extracomunitari, che poi sono una buona parte».

Già dal prossimo Consiglio europeo, almeno in teoria, la Gran Bretagna potrebbe formalizzare la richiesta di recesso dall’Unione: «Passerà comunque del tempo, necessario per evitare colpi di mano e attivare strumenti diplomatici per ricucire gli strappi». E una volta uscita? «L’articolo 50 prevede anche la possibilità di una nuova adesione, ma ci vuole l’accordo di tutti gli Stati membri…non mi sembra molto probabile».

 

24 giugno 2016