Berlin, alle radici del Romanticismo

Trascritte in un volume le conferenze del filosofo alla National Gallery of Art di Washington, nel 1965: un libro sul più importante rivolgimento spirituale moderno, pubblicato in Italia da Adelphi

Quando e dove nasce il Romanticismo? Lo sappiamo: in Germania, a cavallo fra il 1700 e il 1800. Ma un conto è studiarlo sui manuali, un altro apprenderlo dalla voce inconfondibile di Isaiah Berlin (1909-1997), filosofo lettone naturalizzato britannico, che nel 1965 tenne alcune memorabili conferenze su questo tema alla National Gallery of Art di Washington, debitamente sbobinate, riscritte e pubblicate nel 1999 in un volume a cura di Henry Hardy, tradotto in italiano da Giovanni Ferrara degli Uberti per Adelphi, con l’aggiunta di alcune lettere inedite dell’autore.

Ecco un libro, Le radici del Romanticismo, sul più importante rivolgimento spirituale moderno, nell’esibita ed esplicita contrapposizione alle vecchie certezze in nome dell’integrità morale, della sincerità, della disponibilità al sacrificio, leggibile anche dai non specialisti, adatto ai giovani non solo universitari, pur restando rigoroso e intenso, senza nulla cedere al rischioso pressappochismo imperante nell’età digitale.

Berlin, grazie al suo talento di scrittore, ci spiega come i prodromi romantici operassero già nei pensatori cardine dell’epoca precedente: dalla sensibilità antropologica di Montesquieu ai dubbi radicali di David Hume fino alla dimensione decisiva che Kant attribuisce alla volontà di scelta presente nell’uomo. L’Illuminismo si stava sgretolando, poi grazie alle folgoranti intuizioni del misconosciuto Johann Georg Hamann, la cui concezione di un Dio non come architetto bensì quale poeta sarebbe ancora oggi foriera di interessanti sviluppi, declinò del tutto.

Con Friedrich Schiller, il quale sostenne la potenza della libertà, e Johann Gottlieb Fichte, che richiamò la nostra attenzione sulla resistenza che l’io oppone al mondo, trionfò il nuovo movimento romantico. Il vitalismo mistico di Schelling ci spinge a concepire l’infinito come uno spazio affascinante e inesauribile, in grado di sprigionare nostalgia: impossibile, per noi italiani, non pensare a Giacomo Leopardi, non citato da Berlin. Questa frustrazione perpetua è alla base del sentimento romantico, per il quale il fallimento vale più del successo. Non conta tanto la comprensione della realtà, quanto l’autoformazione dell’essere umano, come indicato dal Wilhelm Meister di Goethe. L’arte ha una funzione liberatrice.

Lo Sturm und Drang dei giovani alfieri tedeschi finì nell’individualismo assoluto di Max Stirner. Ma, nella visione pragmatica di Isaiah Berlin, potremmo trovare i suoi resti nell’organizzazione sociale che più di ogni altra garantisce il bene comune: «Il risultato del Romanticismo è dunque il liberalismo, la tolleranza, la decenza e la consapevolezza delle imperfezioni della vita… Ciò era lontanissimo dalle intenzioni dei romantici… Sono dunque saltati in aria sulla bomba che avevano fabbricato. Mirando a una cosa, hanno prodotto, fortunatamente per noi tutti, quasi l’esatto contrario».

10 aprile 2024