“Benito Cereno”, la ragnatela narrativa di Melville

Un racconto spesso definito “razzista”, che in realtà mette al centro la solitudine dell’uomo bianco, incapace di un confronto autentico con il suo prossimo

Duecento anni fa, il 1° agosto 1819, nasceva a New York Herman Melville, il più grande narratore americano di ogni tempo. C’è da sperare che l’occasione dell’anniversario produca una nuova lettura della sua opera troppo spesso concentrata su pochi titoli essenziali, dal capolavoro universalmente noto Moby Dick al citatissimo Bartleby lo scrivano. Basti pensare che proprio quest’ultimo celeberrimo testo comparve in origine nella raccolta intitolata The Piazza Tales, i Racconti della veranda (1856) che comprendeva altri notevoli scritti assai meno conosciuti: da The Lightning–Rod Man, sorta di dialogo filosofico, alle prose di viaggio sulle Galapagos, Le isole incantate, peraltro introdotte da magnifici versi, fino a The Bell–Tower, Il campanile, ambientato nel Medioevo italiano.

Nell’attesa di una ristampa di questo volume, possiamo tornare al più importante fra i suoi racconti, cioè Benito Cereno, che invece ha sempre goduto una buona fortuna tra i lettori italiani, a causa della traduzione del 1940 che porta la firma di Cesare Pavese, oggi disponibile in varie edizioni. Pagine immortali che tornano ad essere molto attuali. È la storia dell’ammutinamento di un equipaggio di schiavi neri, al largo delle coste del Cile, i quali dopo aver ucciso la maggioranza dei bianchi lasciano in vita il capitano della nave, il “San Dominick”, con la speranza che lui, Benito Cereno, spagnolo, li riporti in Senegal, o almeno nelle isole di Capoverde. Senonché, quando attraccano sullo scoglio roccioso del Santa Maria con l’intenzione di approvvigionarsi di acqua e viveri, incontrano Amasa Delano, un altro comandante, americano, che, avendo incrociato con la sua nave quella dei rivoltosi, aveva chiesto di salire a bordo.

Quasi tutto il racconto descrive il rapporto fra Benito Cereno, prigioniero di Babo, il capo dell’insurrezione, e Delano, inconsapevole di ciò che sta accadendo. È uno straordinario pezzo di bravura di Melville che scopre la verità lentamente conducendo il lettore all’interno di una vertiginosa ragnatela narrativa. L’atmosfera resta sospesa e assorta, come nella cerimonia della rasatura di Cereno che intimorito offre il collo al suo possibile carnefice, la bandiera spagnola usata come tovagliolo. Il nero Atufal, re nella sua terra, si presenta in catene fingendo di essere stato punito. Delano intuisce che qualcosa non funziona, ma non sa come intervenire. Lo farà soltanto quando Cereno cercherà di salvarsi saltando sulla sua barca. L’ultima parte del testo riproduce, in uno strepitoso linguaggio giuridico, con il “che” usato in chiave percussiva, i documenti relativi al processo di condanna che porterà all’esecuzione di Babo, dopo la morte di molti suoi compagni.

Non pochi lettori hanno definito “razzista” questo meraviglioso racconto di Melville pensando allo sguardo sprezzante rivolto dai due capitani all’equipaggio del “San Dominick”, senza calcolare lo scopo che lo scrittore voleva perseguire: rappresentare la solitudine dell’uomo bianco, incapace di un confronto autentico con il suo prossimo. Così va intesa la debolezza febbrile e l’aria smarrita di Cereno. Quando Delano lo invita a dimenticare ogni cosa lasciandosi accarezzare e risanare dai dolci alisei che hanno già voltato pagina, l’indimenticabile capitano risponde presago della sua fine: «Con la loro costanza, non sanno far altro che portarmi verso la tomba, señor».

29 luglio 2019