«Benedizione» di Haruf, «Trilogia della pianura»

Un racconto in cui la narrazione resta scabra, asciutta, icastica. I silenzi contano quasi più delle parole e i diaoghi sono epigrafi

Un racconto in cui la narrazione resta scabra, asciutta, icastica. I silenzi contano quasi più delle parole e i diaoghi sono epigrafi

Kent Haruf, scomparso lo scorso anno in Colorado a 71 anni, aveva il dono di una scrittura infallibile: basta aprire qualche sua pagina per riconoscerne subito la voce unica, senza necessità di leggere la didascalia. Benedizione, il romanzo che Nn, una nuova casa editrice milanese, ha pubblicato di recente (pp. 273, 17 euro), rappresenta un prezioso tassello della Trilogia della pianura, al cui centro, prima ancora che una vicenda tematica, sta il sentimento del tempo, così come si forma dentro il paesaggio statunitense.

La cittadina di Holt, nella più classica delle invenzioni dal vero, nutre nel proprio seno i rancori, le invidie, i tormenti e le dolcezze della vecchia provincia. Passioni che, come fuochi selvaggi, dopo aver acceso l’esistenza di chi le ha incarnate, ne distruggono perfino il senso, bruciando la vegetazione circostante. In questo feroce scenario Dad Lewis trascorre la sua ultima estate, consumato dal cancro.

Insieme alla moglie Mary e alla figlia Lorraine, consolato dal sorriso di una bambina di otto anni che ogni tanto lo va a trovare, si prepara al grande salto nel buio senza portarsi niente dietro: né speranze, né disperazioni. Un uomo tutto d’un pezzo: questa la forza e la fragilità che sempre lo hanno contraddistinto. Titolare di un negozio di ferramenta, non ha mai accettato l’omosessualità del figlio maschio, Frank, andato a vivere la sua vita a Los Angeles, e nemmeno il tradimento di un amico, a cui aveva affidato la cassa della bottega. Nei giorni degli estremi addii alcuni nodi si scioglieranno; altri resteranno per sempre serrati. Certe maschere cadranno.

Non tutte. Lo stesso reverendo Lyle, il quale avrebbe il compito di alleggerire la soma sulle spalle dei fedeli, ha una storia familiare talmente complicata che non riesce a concludere granché, diviso fra radicalismo evangelico e incapacità di scegliere cosa fare della propria vita. Si sente nello stile dello scrittore il ritmo di Hemingway, l’epica di Faulkner e la malinconia di Cechov. Quest’ultimo costituisce il polo di riferimento più significativo. In tale implicito tributo Haruf non passa attraverso la mediazione di Raymond Carver, che pure introiettò l’autore del Giardino dei ciliegi.

La narrazione resta scabra, asciutta, icastica. I silenzi contano quasi più delle parole e tuttavia non compare il falsetto lirico che troppo spesso disonora la letteratura contemporanea. Soprattutto nei dialoghi Haruf eccelle: li trasforma in epigrafi. Non formula giudizi, né rimane indifferente. Accompagna i suoi personaggi con una musica inconfondibile, che li rende preziosi. Per cogliere l’essenza della condizione umana, non ha bisogno di alzare la voce. È come se la benedizione prefigurata dal titolo di questo capolavoro scaturisse dallo stesso impulso vitale che lo alimenta: è la risposta americana del pudore virile allo sconcerto russo di fronte al dolore innocente.

 

25 maggio 2015