Beatrice Fazi, dall’aborto all’«amore gratuito che perdona»

A Santa Giovanna Antida, dov’è attivo il Cav Ardeatino, la testimonianza dell’attrice che ha interpretato Melina di “Un medico in famiglia”

A Santa Giovanna Antida, dov’è attivo il Cav Ardeatino, la testimonianza dell’attrice che ha interpretato Melina di “Un medico in famiglia” 

Sosteneva Oscar Wilde che per l’uomo sia più facile raccontare la verità celandosi dietro una maschera piuttosto che farlo in prima persona. Beatrice Fazi, volto noto della TV per la partecipazione a numerose fiction, soprattutto per il personaggio di Melina di “Un medico in famiglia”, ha invece parlato con il cuore portando ieri, domenica 5 febbraio, la sua testimonianza alla parrocchia di Santa Giovanna Antida Thouret. Qui, da cinque anni, è attivo il CAV (Centro di aiuto alla vita) di Roma Ardeatino che ha assistito più di 200 donne in stato di gravidanza e consentito la nascita di 230 bambini.

L’attrice salernitana ha raccontato a braccio, in un’ora intensa ed emozionante, il suo percorso dal male di vivere alla gioia della fede, un cammino di vita che è diventato anche un libro, “Un cuore nuovo”, edito da Piemme nel 2015, e che ha come fulcro l’esperienza del perdono ottenuto per un aborto voluto, ma altrettanto subito e sofferto, quando aveva solo vent’anni.

«Sono il segno più grande della misericordia di Dio – ha spiegato -, ero e mi sentivo una figlia perduta sulle strade della vita, quelle che non danno la felicità»: il suo racconto onesto inizia proprio da quel giorno in cui, schermata dalla vergogna, all’ospedale romano Santa Margherita interrompe una gravidanza non desiderata perché frutto di un amore non consolidato, quello con un uomo più grande di lei e cocainomane, che la abbandonò. Per questa sua particolare condizione Beatrice Fazi non si assolve «perché molte mamme hanno avuto la forza di far nascere i loro bambini anche da sole e mai nessuna di loro si è pentita di questa scelta».

Ma lei era giovane e ribelle, andata via di casa per dimostrare ai genitori che sarebbe stata migliore di loro, separati; giunta nella capitale per colmare un vuoto, un’ansia di rivalsa, un bisogno di accettazione e di riconoscimento che il teatro e i primi successi sembravano concedere. «Se in quella fase qualcuno mi avesse parlato un’altra lingua – ha detto – forse avrei trovato la forza di accogliere la vita, anche la ginecologa, sebbene obiettrice, non mi interrogò e non mise in reale discussione la mia scelta».

Così, le sembrò legittimo difendere il suo diritto di donna sancito dalla legge 194, che riconosce come pratica legale l’interruzione volontaria di gravidanza: «ma è solo il diritto del più forte, senza che si pensi al più debole, al bambino, proprio lui che nella pancia della mamma dovrebbe trovare solo protezione». La ferita rimase dentro di lei, allargandosi, «sono stata la prima, severa giudice di me stessa – ha detto l’attrice, oggi mamma di quattro figli – perché sai di avere fatto la cosa sbagliata e perché l’aborto uccide un bambino ma anche una parte di te».

Poi Beatrice ritrova la fede ma il percorso non è immediato né semplice: «finché non ho chiamato per nome il mio peccato – ha ricordato – non sono guarita e solo di fronte alla luce della Parola ho potuto vedere ridimensionarsi il mio male», perché è ad una Chiesa che giudica e condanna che pensava, e credeva che quell’amore gratuito che perdona, lei dovesse faticare per meritarselo. «E invece prima davanti ad un’ostia consacrata e poi nel dialogo-confessione con un sacerdote – ha concluso – mi sono sentita finalmente accolta e quell’amore che fino ad allora avevo elemosinato, mi veniva donato».

6 febbraio 2017