Bassetti al Centro Astalli: «Liberare dalla paura del diverso»

Il presidente della Cei ha incontrato nella Chiesa del Gesù i rifugiati accolti dal Servizio dei Gesuiti: ha ascoltato le loro storie e ha invitato gli italiani a non avere timore di incontrare l’altro

Sono stati i rifugiati i protagonisti dell’incontro che si è svolto ieri pomeriggio, 25 gennaio, nella chiesa del Gesù, con il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e presidente della Cei, per iniziativa del Centro Astalli. Le loro storie, drammatiche ed eroiche, hanno toccato il cuore del cardinale Bassetti, che li ha ascoltati con attenzione e poi li ha abbracciati uno ad uno. Dopo il suo intervento hanno preso la parola 20 rifugiati di altrettante nazioni del mondo, invocando nelle diverse lingue il dono della pace per i presenti e i rispettivi popoli. Infine hanno pregato insieme il Dio della pace: «Te lo chiediamo come popolo in cammino, pellegrini sulle strade della storia ancora troppo segnata da violenza, conflitti e ingiustizia». Erano presenti centinaia di rifugiati, volontari e Gesuiti. Introducendo l’incontro padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, ha ricordato che «le storie dei rifugiati ci aiutano a fare memoria dei fantasmi del nostro passato per non ricadere più in quei tragici errori che ci hanno portato a negare l’uguaglianza e la dignità di ogni essere umano, banalizzando il male.  Con il loro presente spesso segnato da difficoltà, i rifugiati – ha aggiunto  – ci ricordano alcune priorità delle politiche sociali che riguardano tutti, quali il lavoro, la casa e la salute, e che negli ultimi anni non ci hanno visti impegnati come avremmo dovuto».

«Avete fatto sacrifici immensi». «Avete fatto sacrifici immensi per raggiungere l’Europa e forse questi sacrifici sono dovuti in parte anche alle nostre paure. Paure che tengono lontano l’altro, che fanno diventare diffidenti, che generano scarti. Quante vittime delle nostre paure!», ha detto il cardinale Bassetti. «Voglio portarvi la solidarietà e l’affetto dei vescovi e della Chiesa italiana», ha affermato, fortemente colpito da quattro testimonianze di rifugiati. «Aver ascoltato questi racconti è una esperienza profonda di umanità – ha evidenziato -. I vostri racconti sono brandelli di carne viva, che mi hanno fatto venire in mente la Pentecoste. Perché dividere gli affetti è la cosa più difficile che possa capitare a una creatura». Ancora:  «Non abbiate paura: è un fratello»: questo l’atteggiamento che devono avere i cattolici nei confronti di migranti e rifugiati secondo il cardinale Bassetti, ha precisato ai giornalisti al termine dell’incontro. «Io ho una grande missione: liberare la gente dalla paura del diverso – ha sottolineato -. La paura ci porta a situazioni imprevedibili, la paura ci paralizza, fa perdere la speranza. La paura ti porta a difenderti, che è il contrario di accogliere. Come sacerdote e vescovo, in nome del Vangelo, sto portando avanti questa parola di speranza: “Non abbiate paura, è un fratello, non viene a turbare la tua quiete”. Certo tra fratelli bisogna condividere, non dobbiamo avere la psicologia del figlio unico».

Quattro storie dall’Afghanistan al Mali. Jawad dall’Afghanistan, Soheila dall’Iran,  Osman dalla Somalia, Soumaila dal Mali. Sono i quattro rifugiati  che hanno raccontato le loro storie. Jawad è di etnia hazara, una minoranza perseguitata da più di 100 anni. «A 13 anni, come tanti altri, senza darmi troppe spiegazioni, mio padre mi dice di partire – ha detto Jawad -. Era pericoloso restare, figlio maschio, in un Paese in cui anche i bambini combattono, uccidono e muoiono». Il viaggio tra le mani dei trafficanti è stato duro, passando per il Pakistan senza cibo e acqua a sufficienza, camminando sulle montagne, di notte, tra le mine antiuomo. In Iran ha vissuto 18 anni studiando e lavorando, si è laureato in sociologia e storia, è riuscito ad arrivare in Italia grazie a un visto per studio, poi si è sposato con una ragazza afgana. Oggi hanno un bambino, sono integrati. «L’integrazione per me è essere uomo di pace e dialogo ogni giorno – ha concluso -. Uomo che studia e ama la cultura perché solo chi studia può cambiare il mondo». Anche Soheila, 30 anni, è fuggita dall’Iran. È laureata in arte, dipinge quadri e lavora come grafica in una cooperativa: «Essere una donna rifugiata è difficile e doloroso, soprattutto se sei stata malata. In Italia ho subito tre interventi alla testa, ho vissuto l’esperienza del coma. Sono ancora viva, ancora qui, più forte di prima».

Osman, 26 anni, è scappato dal Al Shabab, il gruppo integralista somalo, quando aveva 18 anni. «Non avevo scelta – ha detto -. Sono fortunato perché oggi in Somalia i terroristi sono ovunque, si fanno saltare in aria. Scuole, ospedali, piazze, non sei mai al sicuro. Ecco perché noi somali scappiamo, anche rischiando di morire, attraversando il deserto, sfidando il mare». Soumaila, 29 anni, è del Mali. Lavorava come responsabile della comunicazione in un partito dell’opposizione. Volevano arrestarlo dopo aver denunciato i crimini del governo. È fuggito in Algeria, poi è finito nelle prigioni libiche, in una cella «di meno di due metri per due, con altre trenta persone». Si è imbarcato con altri 120 su un gommone che dopo un’ora è affondato: «Ho visto annegare tante persone, ci siamo salvati in 30. L’Europa mi ha accolto, nonostante le resistenze, le chiusure, i muri. Nonostante avrebbe preferito non farlo». (Patrizia Caiffa)

26 gennaio 2018