“Baby”, teen drama corale dominato dalla solitudine

In streaming su Netflix la seconda stagione della serie ispirata dal caso delle giovanissime squillo dei Parioli, del 2013. Ma la negatività è degli adulti

“Baby”, la serie italiana prodotta e distribuita da Netflix – la cui seconda stagione è disponibile in streaming dal 18 ottobre scorso – prende spunto, assai liberamente, dal drammatico caso delle due ragazzine che nel 2013 fecero scoppiare lo scandalo delle baby squillo dei Parioli; ma la cronaca diventa il pretesto per costruire un teen drama corale dominato dalla trasgressione, dal sesso, dal denaro, dalla droga, dalla noia e da tanta solitudine. Gli adolescenti di Baby, figli di un mondo ricco e malato, si cacciano nei guai e si feriscono tra loro con la stessa facilità con cui si dicono «mi manchi». Accumulano errori senza riuscire a fermarsi, almeno fino all’epilogo della seconda stagione, il cui finale rimane aperto, ovviamente, per fare spazio ad altra narrazione.

Non riescono a mettersi in salvo, i ragazzi protagonisti, anche perché nessun adulto tende loro la mano: non c’è genitore, in questa serie diretta da Andrea De sica, Anna Negri e dalla seconda stagione anche da Letizia Lamartire, che riesca veramente ad aiutare i propri figli, comprendendoli, ascoltandoli, intuendo il male che si procurano. È una negatività corale, quella delle mamme e dei papà che abitano le lussuose case di Baby, una debolezza e una fragilità così calcata da apparire poco realistica: un campionario di distrazione, ottusità e cecità, di superficialità nell’osservare che a volte passa per l’autoritaria imposizione di un modello che divora l’indole dei figli.

I genitori di Chiara (Benedetta Porcaroli) vivono separati in casa: per evitare, dicono loro, che la figlia soffra, ma si lasciano beccare mentre baciano amanti e i buoni propositi saltano rapidamente in aria. Il padre di Ludovica (Alice Pagani) si risposa nella prima stagione e scompare, lasciando il compito di educare la figlia a una moglie confusa, irrisolta e impaurita (Isabella Ferrari), che non sa come fermare la ragazza quando scopre che è finita in un brutto giro di prostituzione. Damiano (Riccardo Mandolini) la madre l’ha persa, e dalla periferia del Quarticciolo si è ritrovato a vivere nell’elegante e torbido quartiere dei Parioli, per stare con suo padre ambasciatore, il quale preferisce farlo pedinare piuttosto che parlare con lui, tradendo la fiducia del ragazzo quando questo lo scopre. Pure Fabio (Brando Pacitto) ha perso la madre, e vive con suo padre, che è anche il preside del liceo privato in cui la serie è ambientata: un uomo ossessivamente severo, rigido e opprimente, il cui unico risultato ottenuto è un figlio ansioso, insicuro e incapace, almeno fino a un certo punto, di esprimere le proprie verità, compresa quella dell’orientamento sessuale. Qualcosa di simile capita a Brando nella seconda stagione, il cui padre (Max Tortora) esige un figlio virile e abile nel comandare, e così, nonostante Brando non lo sia per nulla, lascia che il suo bisogno di verità venga schiacciato quotidianamente da quella menzogna che come una piaga si propaga nelle dodici puntate della serie, tra prima e seconda stagione.

Non è un caso, probabilmente, che il costoso liceo della serie si chiami Collodi: come l’autore di Pinocchio, il burattino che mentiva perché senza maestri. Un po’ come gli adolescenti di questa serie, che gettano la loro energia nelle mani di approfittatori senza scrupoli, o che, più in generale, la disperdono in un continuo girotondo che riporta sempre al punto di partenza, senza vie di uscita. Ed è questo, in fondo, il vero acquario in cui sono immersi i personaggi di Baby. Più di quello dorato e ovattato dei Parioli: «l’acquario bellissimo» di cui parla Chiara all’inizio della prima stagione, dal quale però vuole fuggire perché desidera il mare, e allora, insieme a Ludovica inizia a prostituirsi.

L’altro acquario, invece, è la gabbia finora invalicabile di una sceneggiatura piena di angoscia e di un disordine profondo, di una confusione violenta e così propagata da far pensare che l’adolescenza sia inevitabilmente, esclusivamente questo. È l’intreccio stesso, però, negando ai personaggi ogni spiraglio di luce, a palesare una certa spettacolarizzazione del tema trattato. Con un occhio attento ad altre serie straniere sullo stesso argomento, il romanzo di Baby estremizza conflitti per coinvolgere il più possibile lo spettatore, indebolendo così l’indagine esaustiva sull’adolescenza, e lasciando che il realismo rimanga soprattutto nel modo di parlare dei ragazzi, nei copiosi pezzi dei loro cantanti, nell’uso spasmodico e pericoloso dei telefonini: negli atteggiamenti, insomma, più che nella sostanza. Ed è per questo che la serie non offre qualcosa di veramente sostanzioso per la comprensione di quel momento certamente complesso e delicato, ma non solo cupo e doloroso, che è l’adolescenza.

30 ottobre 2019