“Babij Jar”, il carbone ardente di Kuznecov sull’orrore della Shoah

Il testo, uscito per la prima volta nel 1966 su una rivista e brutalmente censurato dalla polizia sovietica, venne ristampato 3 anni dopo in versione integrale a Londra

Nascere e crescere a Kiev nei pressi del fossato di Babij Jar dove, durante la seconda guerra mondiale i nazisti, insieme ai collaborazionisti ucraini, uccisero circa centomila persone, fra ebrei, rom, comunisti, dissidenti e prigionieri dell’Armata Rossa, significa aver vissuto alle porte dell’inferno: questa è stata la vita di Anatolij Kuznecov, bambino al tempo delle grandi carestie causate dallo stalinismo – talmente gravi da provocare persino episodi di cannibalismo -, adolescente durante gli eccidi, in seguito studente di Letteratura a Mosca. Sin dall’inizio egli si rese conto di star assistendo a eventi inauditi e cominciò a prendere appunti su un quaderno, come potrebbe fare un ragazzo. I ricordi e gli studi, ma soprattutto gli incubi e i fantasmi, lo spinsero a scrivere un libro che uscì per la prima volta nel 1966 sulla rivista “Junost’”: brutalmente censurato dalla polizia sovietica, venne ristampato tre anni dopo nella sua versione integrale a Londra dove lo scrittore era riuscito a scappare. Questo testo, uno dei riferimenti più importanti della letteratura legata alla Shoah, è stato pubblicato in lingua italiana da Adelphi: “Babij Jar” (pp.454, traduzione di Emanuele Guercetti, 22 euro) con un sottotitolo emblematico: romanzo-documento.

Leggerlo è come raccogliere un carbone ardente. La ferocia umana passa senza soluzione di continuità da un sistema totalitario all’altro sotto gli occhi del giovane protagonista che assiste sconvolto al massacro di migliaia di persone prima fucilate e poi buttate giù nel baratro, spesso bruciate vive, uomini, donne e bambini. Grovigli di cadaveri ricoperti di sabbia e riesumati nel tentativo di nascondere le tracce dello sterminio. Eppure qualcuno incredibilmente riuscì a sopravvivere: fra le tante atroci testimonianze spicca il racconto di Dina Mironovna, madre
di due bambini e attrice del Teatro delle Marionette di Kiev, la quale un attimo prima che il fuoco della mitragliatrice la colpisse si gettò insieme agli altri nel burrone facendo finta di essere morta anche lei per evitare le raffiche delle SS, impegnate a girare in mezzo ai cadaveri per rubare anelli e collane.

Kuznecov colloca queste schegge allucinanti – ce ne sono diverse difficili persino da riferire – all’interno della drammatica vicenda ucraina, stretta nella morsa del potere nazista e sovietico, ma non si stacca dalla rievocazione più domestica e tuttavia ugualmente significativa: in questa chiave forse le pagine più avvincenti sono le ultime, quando la casa natale dello scrittore si trova al centro dello scontro bellico, proprio nel momento in cui le truppe russe sferrano l’attacco finale che porterà alla liberazione di Kiev. Alcuni sottufficiali artiglieri tedeschi offrono cibo agli abitanti, madre e figlio si mettono a loro disposizione. In quelle poche righe si percepisce lo scarto sottile fra il male e il bene e quanto sia facile transitare da una dimensione all’altra.

Nella folla di personaggi secondari restano negli occhi le persone più umili: il nonno dell’autore, il vecchio professore di matematica che muore di fame, il bambino sopravvissuto al massacro e poi ucciso all’improvviso, l’anziana che regala al protagonista un mucchio di banconote scadute ormai inservibili. Erano state nascoste e accumulate in vista di un futuro migliore ma hanno fatto presto a diventare carta straccia, come la cenere delle povere vittime.

20 maggio 2019