“Aspromonte”, il racconto di Calopresti rimanda al neorealismo

Un racconto in presa diretta, di una schiettezza narrativa asciutta e dolorosa, «sulle promesse mancate e sulle energie infrante del nostro Sud», spiega il regista

Africo, paesino arroccato nell’Aspromonte calabrese, anno 1951. Una donna muore di parto perché il medico non è arrivato in tempo dalla Marina sottostante. È la scintilla che fa scattare la ribellione degli abitanti, che subito chiedono al prefetto di avere un medico fisso, e poi pensare a costruire una strada per agevolare lo spostarsi delle persone. Da qui, da un episodio (come terrà a precisare il film nei titoli di coda) inventato ma certo non impossibile, prende il via la vicenda di questo “Aspromonte”, film al quale il regista ha voluto aggiungere “La terra degli ultimi”, per meglio identificare valore e sostanza del territorio, in uscita nelle sale dal 21 novembre.

La richiesta di un dottore e la decisione di mettersi senza chiedere permessi a costruire una strada per superare ostacoli imposti dalla natura configura uno scenario che impone con forza di spostare indietro l’orologio di almeno 70 anni. La Calabria dell’immediato dopoguerra era proprio così: orgogliosa, testarda, con poca voglia di cambiare. Un palcoscenico irto e difficile da abitare, se non al prezzo di un costante sacrificio quotidiano, di una volontà di vivere con quello che la terra e il lavoro procuravano. Si tratta, come si vede, di un argomento non facile da approcciare.

Mimmo Calopresti in cabina di regia lo ha affrontato col coraggio della presa diretta, mettendo da parte moralismi e giustificazioni a favore di una schiettezza narrativa asciutta, dolorosa, consapevole dei sacrifici da compiere. Sulla base del suo passato di autore attento e sensibile ai bisogni dei più emarginati della società (vedi “Preferisco il rumore del mare”, 2000, riarsa metafora di un ritorno da Torino nella natia Calabria), il regista affronta a viso aperto la tematica di quel cinema meridionalista che ha trovato in passato un eccellente artefice in alcuni titoli di Francesco Rosi ( “Cristo si è fermato a Eboli“, 1979; “Tre fratelli”, 1981).

Nello svolgimento complessivo, Calopresti concede qui qualcosa di più al racconto, in modo
tale da farlo risultare alla fine il risultato di un movimento corale, visionario, impastato di utopia e di sogni: tutto il piccolo paese si muove all’unisono verso un preciso obiettivo, espressione di un agire comune che, se non nell’immediato, avrebbe avuto alla fine ragione. «Un racconto western – dice Calopresti – sulla lotta di un popolo di frontiera per avere una strada e, in filigrana, un racconto molto italiano, sulle promesse mancate e sulle energie infrante del nostro Sud». È il racconto della forza della sua identità che diventa prigione, della grandiosa bellezza della sua natura che si intreccia con la miseria delle condizioni, di vita, del suo isolamento e del sogno disperato dei suoi abitanti di far parte di un mondo più grande.

Regia solida, location autentiche che rimandano ai momenti del neorealismo (“In nome della legge”, 1948; “Il cammino della speranza”, 1950, entrambi di Pietro Germi), figure tutte esemplari di un modo di essere e di vivere: l’uomo forte e volitivo, la donna arrivata dal Nord per misurare se stessa in un contesto difficile se non impossibile, il “cattivo”, che impone la paura e amministra la giustizia con il fucile a tracolla che usa a sua discrezione, il “matto”, o meglio, il poeta del paese che crede in un futuro dove i sogni saranno i veri padroni. Interpretazioni all’altezza, con Valeria Bruni Tedeschi (la maestra, ostinatamente fuori contesto), Marcello Fonte (il poeta/sognatore), Francesco Colella (Peppe l’uomo forte), Sergio Rubini (don Totò, il boss). Film di forte coinvolgimento per ripercorre l’Italia di ieri senza dimenticare quella di oggi.

18 novembre 2019