Arginare la paura. Le parole della politica

È possibile fermare il gigantismo dell’intolleranza sociale? L’invito a lavorare seriamente nelle scuole, sulle giovani coscienze. Il ruolo e la responsabilità di chi governa

In passato scrittori e filosofi hanno vagheggiato la società perfetta, quella in cui le esigenze di tutti sarebbero state comprese e appagate: utopie meravigliose che costituivano traguardi teorici ma che potevano ispirare l’azione degli uomini. Oggi invece ci capita di leggere sempre più spesso di scenari distopici, in cui i rischi di uno sviluppo tecnologico aggressivo si mescolano a previsioni economiche apocalittiche e agli effetti di esodi imponenti di masse di disperati senza patria. È soprattutto questo fenomeno, le migrazioni, a preoccupare e a sollecitare analisi allarmate. La domanda da farsi diventa allora: perché i processi migratori ci spaventano tanto, perché la presenza dello straniero ci interpella così perentoriamente? Perché un razzismo neanche tanto più serpeggiante, ma ormai conclamato e tollerato, avvelena l’immaginario dei nostri giovani, i comportamenti di folle di tifosi allo stadio, i discorsi della gente comune?

Si tratta di fenomeni sociali profondi con radici ancora più profonde. La verità è che gli esseri umani tendono ad aggregarsi tra simili dai tempi remoti prima della Storia perché questa fenomenologia risulta dal punto di vista della specie più economica e più performativa, facilitando la comunicazione tra gli esseri umani, che è poi la base della cultura e dello sviluppo umano. Questa tendenza aggregativa porta a guardare con sospetto chi è visibilmente diverso da noi, chi parla un idioma diverso o ha fattezze molto diverse dalle nostre. In questo caso, potremmo dire, le esigenze di salvaguardare il gruppo sociale di appartenenza, e dunque noi stessi, sopravanzano in forza e in cogenza gli impulsi conoscitivi ed esplorativi pur forti, che ci porterebbero ad aprirci all’altro da noi. A questa dinamica ancestrale affiancherei un altro fenomeno, anch’esso antico, direi tribale: la ricerca affannosa di una vittima sacrificale che allontani da noi la sofferenza, la scelta emotiva, irrazionale del capro espiatorio per tutti i nostri guai.

Nell’epoca attuale, queste due fenomenologie si intrecciano e si potenziano vicendevolmente, anche perché quelli che gli osservatori internazionali chiamano gli ”imprenditori della paura” fanno delle ansie della psicologia collettiva una palestra di azione politica. E quando avvertono che la folla reagisce agli stimoli e alle sollecitazioni in tal senso, raddoppiano gli sforzi producendo una bolla di paura che può deflagrare pericolosamente. Gli scenari europei ed extraeuropei sono abbastanza chiari da tale punto di vista. Una bolla di paura che rappresenta l’humus ideale per rilanciare parole d’ordine che credevamo dimenticate e seppellite dalla Storia.

Cosa può fare una società che ancora conserva anticorpi sani, reattivi, generativi? È possibile fermare un processo apparentemente irreversibile di gigantismo dell’intolleranza sociale? Bisogna partire dalla consapevolezza storica e dalla considerazione sempre valida che “il sonno della ragione genera mostri”. Una volta aperta la porta all’irrazionalità, si scoperchia il vaso di Pandora delle emotività sociali, delle pulsioni primordiali, delle paure senza nome. Ed è un percorso che può avere esiti inquietanti. Dobbiamo iniziare a lavorare seriamente nelle scuole, sulle giovani coscienze che ancora conservano una propria freschezza, una qualche “verginità”. E che sono potenzialmente disponibili a praticare un “discernimento”, aiutati maieuticamente dagli insegnanti, foriero di nuove, serene coscienze che uniscano alla luce dell’intelligenza la sapienza e la compassione del cuore.

La politica, nel senso più alto del termine, può fare tanto: innanzitutto non abdicare a quel senso di responsabilità sociale che fa di un politico uno statista, usare un linguaggio responsabile, che – pur nella consapevolezza dei problemi – offra parole guida improntate alla soluzione pacifica e alla composizione dei conflitti. Ricordiamo sempre le parole ispirate di Paolo VI: la politica è la più alta forma di carità. Non dimentichiamolo mai. (Elisa Manna)

4 marzo 2019