Zingaretti e Napolitano “raccontano” il terrorismo ai ragazzi

Concluso all’Argentina il progetto della Regione sugli anni di piombo. Il presidente della Repubblica: «Quel periodo non può tornare. Ma attenti a episodi che possono apparire sinistri anche oggi» di Elisa Sartarelli

In Italia è escluso un ritorno agli anni di piombo. A dirlo è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, concludendo il progetto “Il terrorismo raccontato ai ragazzi”, promosso dalla Regione Lazio in collaborazione con Roma Capitale e curato dal Progetto ABC Arte Bellezza Cultura, venerdì 23 maggio al Teatro Argentina. «Quel capitolo si è chiuso con la sconfitta del terrorismo attraverso le leggi della democrazia. Non tornerà, non può tornare», ha dichiarato davanti ai 2mila studenti e ai 100 docenti arrivati da 45 istituti superiori di Roma e del Lazio. Bisogna però stare attenti a episodi «che possono apparire sinistri anche oggi», come la campagna di minacce al procuratore Caselli, che ha istruito procedimenti a carico dei gruppi di violenti introdotti nel movimento No Tav. O ancora, i recenti scontri in piazza durante alcuni cortei a Roma: «Occorre superare certi atteggiamenti di stupida e sterile violenza». Violenza «senza sbocco – ha aggiunto Napolitano – che rischia di farci tornare indietro dalle conquista sociali e di libertà. Per questo bisogna essere rigorosi e non essere indulgenti. Bisogna credere nella dialettica del dibattito anche nelle pressioni dal basso, purché si eserciti nella legalità».

Interrogato dai ragazzi che affollavano il teatro, il presidente ha continuato: «Non possiamo intravedere un giorno in cui tutto sarà chiarito: la strada della giustizia è tortuosa e lunga e qualche volta non si conclude. Ancora oggi in America si discute dell’omicidio di Kennedy. In Europa quello di Moro è stato l’unico assassinio di un capo di Governo», mentre è accaduto altre volte negli Usa, «a cominciare dall’omicidio a tradimento di Lincoln». Un ricordo infine gli ha fatto tremare la voce: «Una delle cose più belle è stata quando in Quirinale, davanti a me, si sono abbracciate la vedova di Calabresi e la vedova di Pinelli».

«Un Paese senza memoria è un Paese più fragile, ignorante, insicuro, che non capisce perché determinate cose accadano», ha detto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Fondamentale, proprio per questo, tornare a parlare degli anni bui del terrorismo, perché la storia della sua sconfitta «è disegnata dall’impegno delle forze dell’ordine, della magistratura per smantellare la rete della violenza politica», ottenuta anche grazie alla «reazione democratica, civile, popolare e diffusa». Ma la democrazia, ha avvertito il governatore, non va mai considerata «un voto burocratico, né un bene acquisito per sempre: deve essere vissuta come un orizzonte da conquistare ogni giorno rinnovando un impegno individuale e collettivo. Nella democrazia – ha continuato – c’è posto per tutte le idee, eccetto quelle che per affermarsi negano ad altre il diritto di esistere».

Proprio sul filo della memoria dunque corre il progetto regionale ispirato a “Figli della notte” (Baldini&Castoldi), il libro del giornalista Giovanni Bianconi che racconta del ventennio di violenza politica che ha sconvolto l’Italia tra il 1969 e il 1988 dal punto di vista delle vittime. Dal libro l’attore Pierfrancesco Favino ha letto un frammento di “L’orologio che spuntava dalla manica”, dedicato a Domenico Ricci, l’autista di Aldo Moro ucciso il 16 marzo 1978 quando lo statista fu sequestrato in via Fani e la scorta fu trucidata dalle brigate rosse, e a suo figlio Gianni, presente al dibattito insieme a una delle figlie dello statista della Dc, Agnese Moro.

«Sapevo che era successo qualcosa a mio padre ma avrei capito solo dopo la ferocia con la quale era stato ucciso – ha raccontato Gianni Ricci -. Fu una giornata di pianti, di dolore. Avevo voglia di conoscere, studiare, capire cos’era successo. Montava in me la rabbia, avrei voluto ucciderli anch’io ma con il tempo capisci che odio e rabbia non fanno altro che dilaniarti dentro. Oggi voglio trasmettere – ha concluso, rivolgendosi agli studenti – le nostre memorie, quelle di quanti sono caduti per questa nostra democrazia, e lascio a voi il compito di comprendere quegli anni».

Un impegno, quello della trasmissione della memoria, che da anni coltiva Agnese Moro, figlia del leader della Democrazia cristiana, soprattutto con i ragazzi delle scuole. «Quella mattina del 16 marzo – ha ricordato – è stata la più triste che si potesse avere». Nei 55 giorni del rapimento «dal salotto di casa nostra sono passate tutte le autorità del Paese, è stata una vicenda complicata e dolorosa. Vorrei che se ne potesse parlare serenamente». Poi, rivolgendosi agli studenti, ha ricordato così suo padre: «In mezzo al negativo riusciva a vedere la parte di positività che si stava facendo strada. E aveva fiducia nei confronti dei giovani: anche in quegli anni difficili, vedeva con favore le richieste che arrivavano dai ragazzi e che la politica avrebbe dovuto raccogliere. Spesso era in contrasto con il suo partito perché non apriva porte e finestre a queste novità. Ci lascia l’idea che si deve e si può parlare con tutti».

26 maggio 2014

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