Verso un nuovo pensiero economico

Il prodotto interno lordo, l’architrave dell’attuale modello di sviluppo, va “messo in pensione”. Non è possibile immaginare uno sviluppo infinito in un mondo finito. L’importanza delle relazioni di Fabio Salviato

In questi ultimi mesi, anche in riferimento alla persistente crisi economico-sociale-etica-finanziaria, si intensificano i dibattiti, gli incontri, le conferenze, in cui economisti, industriali, operatori della società civile si interrogano sulla necessità di ridefinire un nuovo modello economico. Soprattutto considero interessante lo sforzo che si sta facendo per lanciare proposte e spunti di riflessione, in cui fortunatamente anche gli operatori del territorio sono coinvolti direttamente.

In questi giorni si è tenuta a Venezia un’importante conferenza che ha cercato di fare il punto della situazione sul movimento della “Decrescita felice” (Mdf) che in Italia vede come massimo esponente Maurizio Pallante e che conta oramai una quarantina di gruppi e comitati territoriali. Ora, non credo di scandalizzare nessuno nell’affermare che il movimento della decrescita, da solo, non rappresenta una risposta completa al fine di definire un nuovo pensiero economico, ma certamente nel suo impianto teorico, e nella conseguente applicazione operativa, rappresenta un importante contributo, apportato da studiosi, ricercatori, operatori, per definire nuovi principi che possano consolidare quel percorso verso un nuovo modello economico, così importante da definire in tempi rapidi. La conferenza di Venezia ha rappresentato una tappa che ha evidenziato indubbiamente un’attenzione crescente verso queste proposte.

Vorrei cogliere questa occasione per sottolineare alcuni aspetti che a mio avviso, “decrescita o non decrescita”, dovrebbero rappresentare riferimenti importanti, e lo faccio volendo utilizzare lo stile dell’operatore interessato non solo a dare un contributo al dibattito, ma anche ad illustrare proposte concrete che già oggi, fortunatamente, rappresentano dei riferimenti importanti per centinaia di migliaia di persone.

Il principale criterio di valutazione su cui ancora oggi si basa il pensiero economico è centrato sullo sviluppo del Pil (Prodotto Interno Lordo): uno sviluppo che quindi dovrebbe essere senza fine. Come oramai è noto a molti, il Prodotto Interno Lordo contabilizza la ricchezza di un Paese: tutte le attività vengono sommate, sia quelle positive che quelle negative.

Vorrei portare un esempio di come questo meccanismo possa diventare perverso: l’ultimo terremoto avvenuto in Emilia-Romagna comporterà una crescita del Pil. Si dovranno infatti ricostruire case, chiese, fabbriche, strade, ma certamente non è stato salutato come un evento felice, anzi ha comportato decine di morti, lacrime e sofferenze per molti cittadini, e indubbiamente si è innescata una macchina degli aiuti tesa a ricostruire un territorio distrutto. Dovremmo essere forse contenti di questo terremoto? Se invece si fosse costruito in maniera sostenibile, ed aggiungo ecocompatibile, il tessuto sociale sarebbe rimasto sostanzialmente intatto; lo Stato, gli enti ed i privati avrebbero risparmiato risorse, e quasi sicuramente tutti sarebbero stati più felici. In Giappone oramai tutto questo avviene da decenni: si costruiscono molte case in legno e quando capita un evento sismico i danni sono limitati, soprattutto in termini di vite umane. Inoltre vorrei sottolineare un aspetto che apparentemente potrebbe essere considerato secondario: quando avviene un terremoto in Italia, le imprese che producono cemento quasi “festeggiano” l’avvenimento, visto che l’aspettativa della ricostruzione fa sia prevedere nuove entrate, sia crescere rapidamente il loro valore in borsa. Trovo questo aspetto del pensiero economico non solamente cinico, ma immorale.

Un nuovo pensiero economico che – come l’attuale – non prenda in considerazione l’aspetto del rispetto delle regole di carattere solidale e relazionale, non avrà futuro. Quindi il Pil, l’architrave che sostiene l’attuale pensiero economico, va “messo in pensione” e dovrà essere sostituito con altri indicatori che possano tenere in considerazione la responsabilità sociale delle imprese e dei cittadini, la compatibilità ambientale, il rispetto del rapporto tra cittadini e lavoratori. Insomma, una sostenibilità a 360 gradi, capace di generare circuiti virtuosi che comportino ricadute positive nei confronti delle nostre comunità e collettività.

Un secondo punto importante è che per la definizione di un nuovo pensiero economico si deve prendere in considerazione il fatto che non è possibile immaginare uno sviluppo infinito in un mondo finito. Il nostro pianeta, visto dallo spazio, sembra una palla celeste: questa palla celeste ha risorse finite. Di petrolio ce ne sarà al massimo fino al 2050, lo stesso per molte materie prime. Come pensiamo di poter garantire un futuro alle prossime generazioni, se con l’attuale sistema economico stiamo divorando gran parte delle nostre foreste, stiamo esaurendo le materie prime, l’acqua scarseggia, la qualità dell’aria in molte città è pessima? Anche in questo caso vanno pensate ed applicate proposte ed iniziative straordinarie ma di impatto radicale, tali da poter permettere a tutti i cittadini che abitano sul nostro pianeta di poter avere pari opportunità.

L’attuale pensiero economico permette un tenore di vita elevato a circa 1 miliardo di persone e condanna gli altri 5 ad una vita di stenti e di miseria. Provate ad immedesimarvi solamente per un attimo nello sguardo di un bambino affamato, o di un barbone che è costretto a vivere ai bordi della strada. Possiamo dormire tranquillamente nelle nostre belle case riscaldate pensando che 5 miliardi di persone soffrono fame, sete, freddo? E poi, possiamo pensare che questo modello economico, per quanto perfettibile, possa rappresentare una soluzione valida? La risposta non può essere che no.

Oggi il pensiero economico valuta il benessere di un individuo in base alla possibilità che questo ha di circondarsi di prodotti sempre più sofisticati, ma forse confonde il concetto di benessere con quello di felicità. In molte comunità africane la persona più “ricca” non è tanto quella che ha più denaro, ma quella che è riuscita a circondarsi di più relazioni, di più amici. E allora cerchiamo di capire anche da questi esempi, per quanto lontani, che forse quello di cui abbiamo veramente bisogno non è tanto un solido conto in banca, ma anche una parola, uno sguardo, una relazione sana e positiva con chi ci sta intorno. E questo richiede lo sviluppo di un concetto non di competizione, ma di cooperazione.

Tutti oramai concordano sull’importanza di trovare una “via d’uscita” dalla situazione di crisi e dal modello economico che l’ha creata, e molti ci stanno provando con risultati molto positivi (per esempio nel settore dell’agricoltura biologica e biodinamica, delle energie rinnovabili, del commercio equo e solidale, della finanza etica, del consumo critico,…). Ci sono anche molti imprenditori “tradizionali” che cercano di confezionare e fornire prodotti e servizi rispettosi dell’ambiente, e non soltanto delle norme prettamente economiche. Procediamo quindi verso questo nuovo mondo più pulito e solidale, e cominciamo a metterne i primi mattoni nel nostro piccolo: cerchiamo di guardare se i nostri vicini hanno bisogno di qualche cosa, di un aiuto, di una parola, e cerchiamo di adoperarci per poterli soddisfare. Poi, forse, potremo anche partecipare a conferenze e dibattiti dove poter parlare degli altri e con gli altri. Ricordiamoci dell’ “I Care” di don Lorenzo Milani: il “Mi interessi”, mai così attuale come in questo momento storico.

26 settembre 2012

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