Un campo di battaglia permanente

di Filippo Morlacchi

Ma cosa sta succedendo nella scuola in questi giorni? Sembra che la proposta di riforma relativa a scuola e università sia diventata la principale preoccupazione di tante persone, anche di quelle che con le aule hanno ormai ben poco a che spartire. Istituti scolastici e facoltà universitarie in subbuglio, occupazioni, lotte…: pare di esser tornati al tempo delle “pantere” o perfino al ’68. E tutti si sentono in dovere di esprimere le loro opinioni, più o meno illuminate e avvertite, sulla situazione presente.

Dinanzi a questa sollevazione generale, mi chiedo: perché uno scontro così violento si sta sviluppando proprio sulla questione della scuola e dell’università? Mi sembrano possibili due ipotesi di risposta: la prima decisamente infausta, l’altra bene o male consolante.

L’ipotesi infausta è la seguente: è tutta una questione di soldi. Ci si nasconde dietro grandi idealità – i valori della scuola, l’autonomia nell’insegnamento, il confronto con il sistema europeo, la libertà della ricerca per il mondo universitario, ecc. – ma in realtà alla base di passioni così ardenti e prese di posizione così nette ci sta solo la faccenda terra-terra dei soldi. Secondo tale ipotesi, le grandi discussioni speculative sugli strumenti pedagogici più efficaci sarebbero solo una copertura: si fa un gran parlare di voto in condotta e grembiule, di maestro unico e classi differenziali di lingua, ma in realtà ciò che sta a cuore agli uni e agli altri è ben altro: da un lato tagliare la spesa e ridurre i costi dell’istruzione, dall’altro conservare una retribuzione garantita e la stabilità del posto di lavoro. Secondo questa prima, infelice ipotesi, il mondo dell’istruzione in Italia è a un passo dal tracollo. Perché in realtà agli insegnanti starebbe a cuore non la crescita umana e culturale dei propri alunni, ma solo la cura meticolosa del proprio portafogli.

L’altra possibile risposta è invece molto più rasserenante. La scuola e l’università sono e saranno sempre un campo di battaglia aperto perché, in fondo, tutti sappiamo bene che senza di esse non c’è futuro per la società. E allora ognuno difende caparbiamente la sua idea: forse in modo confuso e maldestro, o anche violento ed esagerato; ma per motivi nobili ed encomiabili. In questo caso tanto i progetti di riforma quanto le manifestazioni di piazza, i sit-in nelle università e le occupazioni di scuole cui abbiamo assistito in questi giorni, sarebbero il segnale positivo della rifiorente consapevolezza che l’educazione è davvero importante.

Come stanno davvero le cose? Non lo so. Il mio naturale ottimismo vorrebbe farmi inclinare verso la seconda ipotesi. I ciuffi bianchi che mi spuntano sempre più numerosi sulla barba mi invitano invece a pensare non tanto che sia vera solo la prima, ma che ci sia del vero nell’una e nell’altra. E forse giustamente: i soldi hanno pur il loro peso. Un detto rabbinico ricorda che «senza farina non c’è Torah», cioè che senza un minimo di benessere economico è ben difficile avere la serenità interiore per coltivare i valori dello spirito.

Dunque non sarebbe sensato affrontare una riforma dell’istruzione senza tenere in debito conto anche le esigenze materiali dei diretti protagonisti, cioè i docenti (tutti: dalla scuola dell’infanzia fino ai corsi post-dottorato), il personale ausiliario, i ricercatori e in generale coloro che, a vario titolo, ne sono coinvolti.

D’altro canto non mi sembra giusto che una riforma su materie così sensibili venga imposta dall’alto esclusivamente per questioni di bilancio statale; parimenti, l’opposizione ad essa non dovrebbe essere monopolizzata da rivendicazioni sindacali, da posti di lavoro da conservare o stipendi da garantire. Metter mano al sistema d’istruzione è ragionevole e legittimo solo a partire da un serio dibattito sulle strategie più efficaci da applicare e in vista di una pianificazione educativa ben ponderata.

Talvolta si ha invece l’impressione che tanto le proposte di riforma quanto il loro rifiuto siano guidati piuttosto da scelte di natura economica o da posizioni ideologiche che da un progetto pedagogico-didattico ponderato e, per quanto possibile, condiviso.

Gli unici che sembrano davvero interessati alle questioni essenziali, che andrebbero dibattute con serietà nelle sedi competenti, sono invece le persone comuni. Come durante i mondiali di calcio tutti gli italiani diventano provetti CT e vogliono dispensare indicazioni prescrittive sulle tattiche da adottare nella partita seguente, così adesso tutti gli italiani sono diventati maestri e pedagogisti di consumata esperienza, e pretendono di delineare il futuro dell’istruzione nazionale. Sarebbe invece importante che i professionisti dell’educazione e della ricerca, abbandonando ogni pregiudizio ideologico, si mettessero a tavolino, cercando insieme la migliore via d’uscita all’attuale situazione di crisi. Discutendo non solo di tagli alla spesa e di fondi stanziati o di diritti da garantire, ma anche di educazione, di cultura, di efficacia didattica, di qualità dell’insegnamento e della ricerca e via discorrendo.

Fare dell’istruzione il luogo privilegiato di battaglie ideologiche è infatti pericolosissimo. Perché in tal modo, nelle more del contenzioso, si rischia di trascurare l’elemento essenziale, e cioè che la trasmissione del sapere alle nuove generazioni si fa sempre più problematica. È triste constatare che la riforma della scuola sembra trasformarsi da “cantiere aperto” in cui tutti collaborano alla costruzione di qualcosa di nuovo, a “pozza stagnante”, dove girano inutilmente sempre le stesse acque.

La storia insegna che di norma anche i nemici mortali si coalizzano, magari temporaneamente, di fronte ad una minaccia maggiore. Bisognerebbe ricordarsene. Un’alleanza educativa, anche solo strategica, sarebbe oggi urgente e preziosa. «Compiano tutti uno sforzo per evitare contrapposizioni pericolose. Mostrino tutti senso della misura e realismo nell’affrontare anche le questioni più spinose», ha detto il presidente Napolitano nel discorso di apertura dell’anno scolastico (29 settembre scorso).

E se il Papa ha lanciato il grido di allarme dell’«emergenza educativa» (in maniera autorevole ed insistente), se la Chiesa italiana se ne fa quotidianamente eco, non è certo per fare la Cassandra di turno, ma per riportare l’attenzione di tutti sull’essenziale. In fondo – questa era l’ipotesi più felice – la consapevolezza che la scuola rimane una funzione chiave per lo sviluppo della società è ancora largamente diffusa. E, grazie a Dio, non mancano le persone che lavorano ancora per la scuola e nella scuola con intima convinzione e sincera buona volontà. Su questo bisognerebbe far leva, in vista del bene comune. Dalla prossima volta ne parleremo, presentando alcune iniziative di elevato valore educativo presenti nelle scuole di Roma.

27 ottobre 2008

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