Susan Dabbous: «Quando mi chiesero: “Come vuoi morire?”»

La giornalista è stata rapita in Siria nel 2013 mentre girava un documentario. In un libro racconta i suoi 11 giorni di prigionia e quella domanda fattale dalla donna di uno dei rapitori di Elisa Storace

«Scrivo a mente. Non so quando sarò in grado di riprendere in mano carta e penna, il mio computer o il telefono. Non so quando potrò ritornare a comunicare. Siamo stati sequestrati». Inizia così “Come vuoi morire?”, reportage-diario della giornalista italo-siriana Susan Dabbous, presentato mercoledì 28 maggio alla biblioteca comunale “Nelson Mandela”: con il racconto dei primi istanti del sequestro, durato undici giorni, di cui l’autrice è stata protagonista un anno fa in Siria.

Era infatti il 3 aprile 2013 quando Susan, che si trovava in un un piccolo villaggio cristiano vicino a Lattakia per girare un documentario con l’inviato Rai Amedeo Ricucci, il fotoreporter Elio Colavolpe e il documentarista Andrea Vignali, fu sequestrata insieme ai colleghi da un gruppo terroristico legato ad al-Qaeda. Undici giorni, fortunatamente terminati con il rilascio di tutti e quattro, vissuti fino all’ultimo nell’incertezza della propria sorte. Il titolo del libro riprende una domanda fattale da Miriam, la moglie di uno degli jihadisti nella cui casa Susan, divisa dagli altri, ha trascorso gran parte del sequestro: un “come vuoi morire” chiesto come si potrebbe chiedere “qual è il tuo colore preferito”.

«Nella figura che Susan ha scelto come mediatore culturale – ha detto presentando il volume Riccardo Cristiano, già vaticanista, inviato in Medio Oriente e oggi voce di Radio Rai -, quella della sua carceriera, troviamo tutte le contraddizioni che fanno divergere le nostre culture, filtrate attraverso gli occhi di chi ha aderito a un altro universo valoriale». «Un universo di valori – ha proseguito Cristiano – in cui il paradiso è “a punti” e la morte è compagna della vita, all’interno di una cultura religiosa, trasversale a sunniti e sciiti, che ha sviluppato un pensiero anti-occidentale e apocalittico alla cui luce sinistra la domanda di Miriam diventa logica».

Ultima di una lunga serie tenutasi presso università e istituti culturali, la presentazione ha dato modo all’autrice di raccontare le vicende siriane in modo “speciale”: «Questo libro è un po’ più di un diario – ha spiegato infatti Susan – perché oltre ad essere una rapita, io ero una rapita nel paese dov’ero nata 31 anni prima». «Un paese – ha raccontato – che prima della guerra aveva una purezza che si stenta a trovare nel Medio Oriente più turistico: un paese “da mille e una notte”, che ti incantava con i suoi luoghi magici, come le moschee degli Omayyadi ad Aleppo e a Damasco o il villaggio cristiano di Maaloula dove si parlava ancora aramaico, o il santuario della Madonna di Saidnaya, venerata insieme da cristiani e musulmani». «Io credo – ha detto la Dabbous – che anche questa guerra finirà e questo libro è nato per il “dopo”, dal desiderio di preservare la Siria dei miei nonni da una violenza che non le appartiene».

All’incontro era presente anche Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia, il quale si è soffermato sul tema dei bambini siriani: «Questo libro è un “trattato” di tante cose – ha detto Iacomini – tra cui il dramma dei minori: rende giustizia ai bambini messi in carcere, ai 2 milioni e mezzo di profughi, agli 11 mila bambini morti, e oggi mi permette di ricordare che la rivoluzione in Siria è cominciata proprio con un episodio che riguarda dei bambini, accaduto il 15 marzo del 2011 a Dar’à, quando alcuni bambini di una quarta elementare, forse per emulare le proteste della primavera araba, scrissero sul muro della propria scuola “Il popolo vuole la caduta del regime”: quando furono messi in carcere, torturati e uccisi il popolo scese in piazza».

«Poche settimane fa – ha quindi concluso Susan – sono stata a una fiera di armi ad Amman, in Giordania. E questa fiera, in cui c’era anche l’Italia con Beretta, Alenia e Benelli, sembrava ‎una fiera del cioccolato: nello stand del Canada ti davano il pancake con lo sciroppo d’acero, la Turkish Airlines finanziava lo stand turco con le poltroncine soffici, c’erano persino bouquet fatti di proiettili. Quando finirà questo finirà la guerra, ma, fino ad allora, non si può tacere quello che sta succedendo in Siria e altrove».

29 maggio 2014

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