«Still Life», poetica storia tra vita e morte

La ritualità della morte diventa, nel film di Umberto Pasolini, richiamo alla vita che si fa incontro tra anima, corpo, spirito. Un invito al rispetto, alla ricerca di equilibri interiori, all’amore che aiuta a crescere di Massimo Giraldi

Uberto Pasolini (nessuna parentela con il più famoso Pier Paolo) è nato a Roma nel 1957. Ha cominciato a lavorare nel cinema nel 1983 sul set del film Urla del silenzio, si è affermato a livello internazionale con Full Monthy – Squattrinati organizzati, prodotto nel 1998, premiato da un incasso di 250 milioni di dollari in tutto il mondo. Infine nel 2008 ha esordito nella regia con Machan – La vera storia di una falsa squadra, ambientato tra Sry Lanka e la Germania. Si muove ad ampio raggio in vaste zone del mondo e gli scenari inglesi e la cultura anglosassone lo ispirano particolarmente.

Così per il suo secondo film come regista, Still Life, in sala in questo fine settimana, sceglie Londra ai giorni nostri (nella foto una scena). South London per l’esattezza, dove John May è un funzionario comunale incaricato di rintracciare i parenti più prossimi delle persone morte in solitudine. Conduce un’esistenza ordinata e tranquilla, da sempre organizzata in ogni minimo dettaglio. Un giorno gli viene assegnato il caso di Billy Stoke, un alcoolista trovato morto nell’appartamento di fronte al suo. Quasi nello stesso momento, il suo superiore lo informa che l’ufficio deve essere ridimensionato, ci sono tagli da fare e lui sarà licenziato. John ha solo la forza di chiedere una proroga per il caso in corso. La ottiene e comincia una ricerca caparbia dagli esiti imprevedibili. Still Life è titolo con vari significati: può voler dire «vita ferma» o «ancora vita» o «vita fotografata». In italiano è tradotto con «natura morta» ma in inglese prevale la scelta di «vita» che di «morte».

C’è un punto di partenza realistico. A Londra quel ruolo, quel «lavoro» esiste davvero (anche in Italia?). «Organizzare il funerale di persone che muoiono senza lasciare nessuno dietro di sé è compito che ha qualcosa di profondo e al tempo stesso di universale», dice il regista. Se il modo di svolgere il compito ha un che di burocratico e freddo, è la presenza di John a cambiare il volto di questa triste incombenza, a spostare i termini dell’impegno dalla squallida sensazione di obbligo alla prospettiva di un recupero di vite abbandonate per motivi spesso futili e comunque degne di un atto di umanità.

Mentre si addentra nella vita di Stoke, John legge le pagine di un diario mai aperto e che si conclude con la timida conoscenza di Kelly, la figlia di Stoke, quasi mai vista dal padre. I due hanno un momento di vicinanza prima di un finale inatteso, che è meglio non svelare. Ma intanto siamo stati chiamati a partecipare a una ritualità della morte che diventa richiamo alla vita, o meglio, a quella unità vita/morte che si fa incontro tra anima, corpo, spirito. Un invito al rispetto, alla ricerca di equilibri interiori, all’amore che aiuta a crescere.

16 dicembre 2013

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